Una canzone di George Harrison

Trovata in un garage, decidendo presto le corrette priorità tra musica e politica

(M. McKeown/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
(M. McKeown/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera, ci si iscrive qui.
Domenica sarà il centenario della nascita di Dave Brubeck della cui band al minimo dovreste conoscere tutti questa (la scrisse Paul Desmond, quello col sassofono) o questa, e se no beati voi.
Questa newsletter è l’ultima che vi arriverà, visto che nel frattempo mi sarò gettato sotto le rotaie del tram fuori dagli stagni Patriaršie a Mosca: la città dove è ambientato il Maestro e Margherita, e non vedo altro modo di rimediare al mio aver sostenuto ieri che fosse San Pietroburgo (per uno stupido equivoco sulla Sadovaja). Addio.

You
Ci sono due posti pieni di musica in cui mi sono imbucato da ragazzo approfittando della benevolenza dei titolari nei confronti della mia pischellaggine, anche se non sono all’altezza della simile esperienza fatta dal protagonista adolescente di Almost famous quando si aggrega a una band in tour: uno è un negozio di dischi che mi adottò quando avevo diciotto anni e mi consentì di bighellonare e ascoltare i vinili che volevo, lasciandomi persino dietro al banco quando il titolare voleva andare a bersi un caffè. L’altro fu prima ancora, quando in seconda liceo mi aggregai brevemente al “collettivo” di più grandi di me, il cui impegno politico si esprimeva anche in una radio libera ma libera veramente che aveva la sua sede in un garage accanto all’Istituto d’Arte di Pisa (quello dove nel frattempo stava studiando Gipi).

Anche in quel garage rivestito di cartoni da uova mi lasciavano mettere i dischi in alcuni intervalli tra le trasmissioni di maggior attivismo: erano dischi arrivati nel garage non ricordo da quali percorsi, non tanti, ma scoprii un sacco di cose preziose e ignote ai miei quindici anni. Tra cui il George Harrison post Beatles e una canzone che mi sembrò travolgente da subito e ancora mi sembra, con un testo che va dritto al punto e ci resta senza divagare, che incollo per intero.

I, I
Love, love
And I, and I
I love you
Oh you, you, yeah you

And you, you,
Love, love
And you, yes you,
You love me
Yeah you, you, yeah you

And when I’m holding you
What a feeling
Seems so good to be true
That I’m telling you all
That I must be dreaming

You fu il singolo di un disco di George Harrison del 1975, che non passa tra i suoi migliori (lui usciva da un po’ di traversie, compresa la famosa separazione da Patti Boyd), ma il singolo andò molto bene e rassicurò molti fan e critici risentiti dalla svolta mistica dei suoi disco e tour precedenti. Fu un disco molto americano e con tentazioni soul, anche in You. Lui infatti l’aveva scritta cinque anni prima perché la cantasse Ronnie Spector delle Ronettes, moglie del leggendario produttore Phil Spector con cui Harrison aveva lavorato: la registrarono ma poi non ne fecero niente. Nella versione di Harrison – in cui lui si adegua a cantare da Ronette – restò comunque la voce di Ronnie Spector, mentre il pianoforte è di Leon Russell (ne avevamo parlato qui) e il sassofono di Jim Horn (uno che non si sa da dove cominciare).

Nella foto qui sopra Harrison è alla famosa fiera dei fiori di Chelsea, a Londra, nel 1984 (ci andava spesso, ci sono molte altre foto sue negli anni): che è uno spettacolo, se il mondo ci permetterà di tornarci. Foto bellissima, no? Occhio anche alla coolness delle Nike.

(Anche oggi sarebbe stato del tutto per caso, ma ho mancato di due giorni la coincidenza con il pezzo che scrissi quando morì George Harrison, 19 anni fa).

E insomma venne fuori questa meraviglia (molti hanno poi notato come Silly love songs di Paul McCartney le somigli), una specie di giostra del luna park da cui scendere storditi e felici insieme, con la voglia di fare un altro giro.


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