Dobbiamo ancora risolvere la questione dei brevetti dei vaccini

Un gruppo di paesi in via di sviluppo sta chiedendo alla WTO che siano resi disponibili gratuitamente per tutti, ma l'Occidente non ne vuole sapere

Una ricercatrice della Sinovac Biotech di Pechino, dove è in fase di sviluppo un vaccino per il coronavirus. (Kevin Frayer/Getty Images)
Una ricercatrice della Sinovac Biotech di Pechino, dove è in fase di sviluppo un vaccino per il coronavirus. (Kevin Frayer/Getty Images)

Dopo le ultime incoraggianti notizie sui risultati dei test preliminari sui principali vaccini per il coronavirus SARS-CoV-2 arrivate nelle ultime settimane, le tempistiche che prevedono una prima parziale disponibilità entro la fine dell’anno sembrano più realistiche. Ma insieme alle speranze di milioni e milioni di persone che dopo nove mesi vedono infine una via d’uscita dalla crisi sanitaria ed economica, si stanno facendo sempre più concrete le preoccupazioni dei paesi più poveri e di quelli in via di sviluppo. Da tempo organizzazioni internazionali e governi avvertono che, per come stanno le cose attualmente, miliardi di persone che non vivono nei paesi ricchi dovranno probabilmente aspettare molto più a lungo per vedere la fine della pandemia.

Proprio per questo, un gruppo di paesi in via di sviluppo guidati dal Sudafrica e dall’India sta portando avanti una proposta per sospendere tutti i brevetti legati ai vaccini, ai farmaci e alle attrezzature legate al contenimento della COVID-19. In questo modo, dice la richiesta, le infrastrutture produttive disponibili in tutto il mondo potrebbero essere aggiunte a quelle che hanno già accordi con le case farmaceutiche che hanno sviluppato il vaccino, aumentando la produzione e la disponibilità mondiale.

La sede di questa discussione è l’Organizzazione Internazionale del Commercio (WTO), che tra le altre cose ha la competenza sui Trade Related Intellectual Property Rights (TRIPS), cioè i brevetti commerciali di proprietà intellettuale. Ma la proposta, discussa la scorsa settimana, vede per ora contrari gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Regno Unito e le altre principali potenze occidentali.

Si arriverà probabilmente a un voto nel Consiglio Generale della WTO previsto per metà dicembre, e la mozione avrà bisogno del sostegno di due terzi dei 164 paesi membri per passare. Non è una procedura usuale: normalmente, la WTO prende le sue decisioni per consenso, cioè trovando una soluzione condivisa più o meno da tutti, senza arrivare a un voto vero e proprio.

Intorno alla discussione sulla sospensione o meno dei brevetti legati all’epidemia, e in particolare a quelli dei vaccini, si sta sviluppando un acceso dibattito che diventerà sempre più importante nei prossimi mesi, e dal quale dipenderanno vite umane e bilanci di interi paesi. La decisione, alla fine, spetterà però a pochi governi e istituzioni, e sarà influenzata dalla volontà delle grandi aziende farmaceutiche dietro ai vaccini di cui stiamo sentendo parlare in questi giorni, che peraltro si stanno muovendo in modo assai diverso tra loro.

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Come funzionano i brevetti sui vaccini
Quella dei brevetti commerciali di proprietà intellettuale per i farmaci a livello internazionale è una materia giuridica assai complessa. A rendere le cose ancora più difficili, i vaccini per il coronavirus non sono ancora stati approvati dalle autorità competenti, e quindi non sono ancora stati depositati i brevetti che li riguardano (saranno molti, per le varie tecnologie utilizzate per produrli), anche se alcune delle soluzioni che impiegano sono già brevettate da tempo.

Alla base dei brevetti c’è l’idea condivisa che le aziende farmaceutiche debbano guadagnare dalla vendita dei farmaci o dei vaccini per poter finanziare la ricerca e gli investimenti necessari al loro sviluppo e perfezionamento. Questo principio però si è spesso scontrato con la tutela della salute pubblica e del diritto alla salute di tutti, compresi gli abitanti dei paesi più poveri: un esempio è stata l’epidemia di AIDS, in cui alcuni farmaci da molti anni accessibili in Occidente sono ancora oggi troppo costosi perché possano essere impiegati da milioni di persone in Africa.

Non è quindi un dibattito nuovo. E infatti esistono strumenti con cui i singoli stati, a cui spetta poi effettivamente far valere i brevetti sul proprio territorio, possono imporsi e renderli disponibili per garantire un maggiore accesso ai farmaci o ai vaccini. Il principale di questi strumenti è regolato dalla Dichiarazione di Doha sull’Accordo TRIPS e la salute pubblica, approvata dalla WTO nel 2001 proprio per contrastare l’epidemia di AIDS. La Dichiarazione permette ai paesi membri, che possiedono i brevetti depositati dalle case farmaceutiche, di distribuirli gratuitamente senza il consenso di chi li detiene: finora è stata usata circa cinquanta volte.

Ma questo strumento non è giudicato sufficiente dai sostenitori della proposta alla WTO. Secondo il Sudafrica, è un meccanismo comunque lungo e farraginoso, perché va deciso caso per caso e per ogni singolo prodotto, ed è poco applicabile quando più paesi intendono collaborare, per esempio per importare ed esportare farmaci e vaccini che da soli non potrebbero produrre. C’è poi il rischio, verificatosi in passato, che il ricorso allo strumento da parte di un paese in via di sviluppo attiri pressioni e ritorsioni internazionali.

Il problema poi è che il diritto di proprietà intellettuale su un vaccino non è protetto soltanto dai brevetti, ma anche con i segreti industriali. Come ha spiegato al sito indiano Scroll.in l’esperto di brevetti internazionali K.M. Gopakumar, i segreti industriali sul vaccino – cioè le informazioni su come concretamente è sviluppato e prodotto – sono fondamentali perché possa essere replicato velocemente da terzi. In loro assenza, le leggi prevedono che chi vuole produrlo, anche con un brevetto reso disponibile gratuitamente, debba sottoporsi agli stessi processi di autorizzazione del produttore originario, rallentando moltissimo l’operazione.

Gli esperti non sono convinti che la Dichiarazione possa estendersi efficacemente anche ai segreti industriali. Per questo, secondo Gopakumar, la soluzione è di approvare la proposta alla WTO. Sul sito The Conversation, i docenti universitari canadesi di Sanità pubblica Ronald Labonte e Mira Johri sono arrivati alla stessa conclusione, suggerendo che le attuali convenzioni sui brevetti non siano adatte a un’epidemia globale come quella in corso.

Anche perché le case farmaceutiche hanno generalmente ricevuto enormi finanziamenti da parte dei governi occidentali per sviluppare i vaccini così in fretta: secondo Medici Senza Frontiere, i sei candidati principali hanno ottenuto un totale di 12 miliardi di dollari di fondi pubblici.

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Cosa si è deciso per ora
I vaccini contro il nuovo coronavirus più promettenti, ora come ora, sono tre: quello sviluppato dalla società americana Pfizer con la tedesca BioNTech, quello della società americana Moderna, e quello della britannica/svedese AstraZeneca realizzato con l’università di Oxford. I primi due sono accomunati dalla stessa tecnologia biomedica, quella dell’RNA messaggero (mai utilizzata finora in un vaccino autorizzato su larga scala), e dall’efficacia dichiarata, intorno al 95%, mentre il terzo usa una tecnologia “tradizionale” e per ora sembra avere un’efficacia del 70,4%, ma sono stati sollevati diversi dubbi sulle modalità con cui sono stati realizzati i suoi test clinici.

Delle tre società, Moderna è l’unica ad aver promesso di non esercitare i diritti sul proprio vaccino finché sarà in corso la pandemia (cioè finché l’Organizzazione Mondiale della Sanità non la dichiarerà finita). Non è ancora chiaro però se contemporaneamente condividerà i segreti industriali dietro al vaccino, in modo da renderlo effettivamente replicabile da chiunque abbia i mezzi per farlo. Secondo l’avvocato specializzato in brevetti David Shores, dietro alla decisione di Moderna c’è l’interesse a rendere più diffuse le tecnologie biomediche basate sull’RNA messaggero, in cui è specializzata, provocando così un aumento delle infrastrutture dedicate e delle possibilità di sperimentarle.

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Secondo Shores ci sono poi ragioni più semplici e intuitive di immagine pubblica dietro alla decisione di Moderna. Al momento, AstraZeneca e Pfizer non hanno annunciato niente di simile, preferendo aderire ad altri programmi per distribuire il vaccino anche nei paesi in via di sviluppo (ci arriviamo). Questo ha già attirato critiche sulle società: nei Paesi Bassi Pfizer è stata attaccata da alcuni parlamentari, che hanno usato proprio Moderna come metro di paragone. Il CEO di Pfizer Albert Bourla ha risposto spiegando al quotidiano olandese Algemeen Dagblad: «Siamo una società commerciale, e abbiamo corso dei rischi economici enormi per sviluppare il nostro vaccino», aggiungendo che la tutela dei brevetti serve a evitare che dei malintenzionati li usino per produrne copie non sicure.

C’è da dire che, nel caso del vaccino di Pfizer, non è detto che un’eventuale concessione gratuita di brevetti e segreti industriali sarebbe poi sfruttata così estesamente. Il vaccino infatti richiede di essere conservato a temperature di -70°C, una sfida logistica notevole anche per i paesi più avanzati. Per molti paesi africani, sarebbe probabilmente impossibile.

Le alternative secondo i governi occidentali
Secondo qualche esperto, le pressioni internazionali potrebbero diventare tali da costringere le grandi case farmaceutiche a seguire l’esempio di Moderna per evitare grossi guai d’immagine. Ma per il momento le aziende hanno il sostegno dei governi occidentali, che hanno motivato l’opposizione alla proposta presentata alla WTO sostenendo che le attuali regole sui brevetti non siano un ostacolo dimostrato a una distribuzione equa del vaccino, e che esistono già diverse grandi operazioni internazionali per garantire una certa quota di dosi ai paesi poveri e in via di sviluppo. Hanno tenuto questa posizione, tra gli altri, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Regno Unito.

La questione è se le dosi saranno abbastanza. Secondo uno studio di Oxfam, il 13% della popolazione mondiale – nei paesi più ricchi – si è già assicurato il 51% delle dosi di vaccino. Secondo una ricerca dell’università Duke, i governi dei paesi ricchi hanno prenotato 3,7 miliardi di dosi e sono in trattativa per altri 5 miliardi, cifre che secondo gli esperti corrisponderanno a tutta la produzione iniziale mondiale del vaccino. Se questa tendenza continuerà, dice la ricerca di Duke, «la maggior parte delle persone nei paesi più poveri aspetterà fino al 2024 per poter essere vaccinata».

AstraZeneca si è impegnata a distribuire il proprio vaccino in molti paesi in via di sviluppo al prezzo di produzione fino alla fine dell’epidemia, per un totale di 1,3 miliardi di dosi. Negli accordi che ha visto il Financial Times si specifica che questa clausola scade il primo luglio 2021, e potrà essere rinnovata «se AstraZeneca, agendo in buona fede, riterrà che la pandemia non sarà ancora finita».

Questo tipo di iniziative private delle singole case farmaceutiche è però giudicato da molti insufficiente per una distribuzione estesa ed efficace del vaccino in tutto il mondo. Un meccanismo volontario innesca logiche prevalentemente “di beneficenza”, inadatte secondo molti esperti per una pandemia globale. Uno strumento messo in piedi dall’OMS per permettere la condivisione delle tecnologie per contrastare il coronavirus, il COVID-19 Technology Access Pool (C-TAP), finora ha ricevuto poche adesioni dalle case farmaceutiche. Sono poi arrivate peraltro molte richieste di maggiore trasparenza affinché siano diffusi più dettagli su come saranno distribuiti e venduti i vaccini, per verificare che si tratti davvero di “prezzo di costo”.

Il più importante progetto internazionale per distribuire il vaccino è la Covax Alliance, messo in piedi dalla GAVI Alliance, un’organizzazione che comprende l’OMS, la Banca Mondiale, l’UNICEF e la Bill & Melinda Gates Foundation. La Covax Alliance include decine di paesi, dall’Italia alla Cina, e ha l’obiettivo dichiarato di garantire una distribuzione equa di 2 miliardi di dosi di vaccino entro la fine del 2021. Tra queste ne ha già assicurate 450 milioni per 92 paesi poveri e in via di sviluppo, a un costo massimo di 3 dollari ciascuna.

Ma la popolazione complessiva di questi 92 paesi è di 3,9 miliardi di persone. Visto che per la maggior parte dei vaccini sono necessarie due dosi per l’immunizzazione, secondo l’università di Duke, quindi, le dosi ammassate per ora dal progetto per i paesi più poveri basteranno appena per 225 milioni di persone. I paesi ricchi che fanno parte della Covax Alliance, poi, stanno stringendo accordi unilaterali con le case farmaceutiche per assicurarsi ulteriori dosi oltre a quelle previste dagli accordi comuni, riducendo in questo modo le quantità disponibili sul mercato. Il Canada per esempio si è già accaparrato oltre 400 milioni di dosi di vaccino, pari a dieci volte la sua popolazione. Al contrario, i paesi più poveri e in via di sviluppo perlopiù non hanno potuto fare accordi di questo tipo, e dipenderanno unicamente dai programmi di distribuzione internazionali.