Perché in Italia si può seppellire un feto all’insaputa della donna che l’ha abortito

Un caso recente raccontato da un post virale su Facebook ha riaperto la questione sui cosiddetti "cimiteri dei feti" e in base a quali regole, consuetudini o eccezioni operano

di Giulia Siviero

Il cimitero dei feti di Roma (foto dal profilo Facebook di Marta L.)
Il cimitero dei feti di Roma (foto dal profilo Facebook di Marta L.)

Qualche giorno fa, in un post molto circolato su Facebook e poi ripreso dai giornali, una donna ha raccontato di aver abortito in un ospedale di Roma (il San Camillo, si è saputo) e di aver poi scoperto che senza il suo consenso il feto era stato seppellito al cimitero. Inoltre, sulla lapide c’è una croce in legno con il nome e cognome della donna. «Il campo in questione del cimitero Flaminio è pieno di croci con nomi e cognomi femminili», ha scritto. L’eco di questa storia ha generato molte domande – spesso senza una risposta chiara – su quali siano le norme in materia, e quali siano i margini di decisione garantiti alla donna in casi come questo.

In Italia, infatti, un regolamento di polizia mortuaria stabilisce le procedure in caso di sepoltura di feti e embrioni. Il regolamento afferma che, indipendentemente dall’età gestazionale, la sepoltura è sempre possibile: ma se la libertà di chi la sceglie è dunque garantita, nei fatti non sono tutelate la libertà e la volontà di chi la sepoltura non la vuole. In alcuni casi, regioni e amministrazioni comunali hanno approvato regolamenti che di fatto superano la norma nazionale. In altri casi, comuni o aziende ospedaliere consentono a terzi – spesso associazioni con un dichiarato posizionamento ideologico – di procedere con le sepolture e i relativi riti di accompagnamento, anche all’insaputa delle donne che hanno abortito.

La storia 
Nel suo post su Facebook, Marta Loi ha raccontato di aver avuto un aborto terapeutico (ITG), praticato dunque oltre il novantesimo giorno di gestazione e regolato dall’articolo 6 della legge 194. Al momento di firmare i fogli con le varie pratiche burocratiche le era stato chiesto, a voce, se avesse intenzione di procedere con le esequie e la sepoltura del feto: aveva detto di no, «per motivi miei, personali che non ero e non sono tenuta a precisare a nessuno». Dopo circa sette mesi Loi aveva ritirato il referto istologico e, «pensando ai vari articoli sulle assurdità su sepolture di prodotti del concepimento», aveva avuto un dubbio. Dopo aver chiamato la struttura nella quale aveva abortito «e aver ricevuto risposte vaghe», aveva deciso di contattare la camera mortuaria. Nel suo post riporta il contenuto della conversazione:

“Signora quale è il suo nome?”
“Marta Loi”
“Signora il fetino sta qui da noi”
“Ma come da voi?”
“Signora noi li teniamo perché a volte i genitori ci ripensano. Stia tranquilla anche se lei non ha firmato per sepoltura, il feto verrà comunque seppellito per beneficenza. Non si preoccupi avrà un suo posto con una sua croce e lo troverà con il suo nome”
“Scusi ma quale nome? Non l’ho registrato. È nato morto”
“Il suo signora. Stia tranquilla la chiameremo noi quando sarà spostato al cimitero”
“Ok grazie mille”

A Roma il “cimitero dei feti”, chiamato “Giardino degli Angeli”, è stato inaugurato nel 2012 quando era sindaco Gianni Alemanno. Nel documento che descrive il progetto si dice che presso il cimitero Flaminio dal 1990 è disponibile un campo apposito per la sepoltura a terra dei bambini fino a 10 anni, al quale Ama-Cimiteri Capitolini (la municipalizzata che si occupa dei cimiteri a Roma) destina anche i “feti” che hanno avuto un funerale.

Il documento dice anche che esiste un altro campo «a cui sono destinati i “prodotti del concepimento” o i “feti” che non hanno avuto onoranze funebri perché sepolti su semplice richiesta dell’Asl». Si trovano in fosse singole, contraddistinte da una croce e da una targa «su cui è riportato comunemente il nome della madre o il numero di registrazione dell’arrivo al cimitero, se richiesto espressamente dai familiari». Tralasciando il fatto – comunque non secondario – che si parli di una “madre” e non di una “donna”, si precisa che per la dicitura sulla targa serve una richiesta esplicita.

L’esposizione del nome della donna su una lapide pubblica che non la riguarda e senza il suo consenso costituisce dunque la violazione di un dato sensibile, secondo quanto stabilito, tra l’altro, dall’articolo 9 del regolamento europeo sulla protezione dei dati. Dopo la diffusione della storia, il Garante per la protezione dei dati personali ha infatti deciso di «aprire un’istruttoria per fare luce su quanto accaduto e sulla conformità dei comportamenti, adottati dai soggetti pubblici coinvolti, con la disciplina in materia di privacy». Un gruppo di parlamentari e di consigliere regionali del Lazio ha poi presentato un’interrogazione parlamentare; un’altra è stata presentata al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Nel frattempo, sia il San Camillo di Roma che la municipalizzata Ama hanno dichiarato di non avere alcuna responsabilità. La direzione generale dell’ospedale ha fatto sapere che nei casi di feti con età compresa tra le 20 e le 28 settimane «la norma prevede che questi siano identificati con il nome della madre solo ai fini della redazione dei permessi di trasporto e sepoltura (…) che unitamente al certificato medico legale della Asl vengono consegnati ad Ama all’atto della presa in carico dei feti». Le successive attività relative al trasporto, alla gestione, al seppellimento del feto e alle modalità con cui viene eseguito, dice l’ospedale, sono di completa ed esclusiva competenza di Ama. La violazione della privacy, dicono, è avvenuta «all’interno del Cimitero Flaminio».

Ama ha a sua volta pubblicato una nota spiegando che la sepoltura è stata «effettuata su specifico input dell’ospedale presso il quale è avvenuto l’intervento ed autorizzata dalla Asl territorialmente competente». La municipalizzata si definisce dunque una semplice esecutrice dei regolamenti. Per quanto riguarda la croce con il nome della donna sulla tomba, Ama ha semplicemente comunicato che si usa così: il simbolo «è quello tradizionalmente in uso, in mancanza di una diversa volontà, mentre l’epigrafe, in assenza di un nome assegnato, deve in ogni caso riportare alcune indicazioni basilari per individuare la sepoltura da parte di chi ne conosce l’esistenza e la cerca».

Marta Loi ha parlato della rabbia e dell’angoscia che le ha provocato vedere che senza il suo «consenso, altri abbiano seppellito mio figlio con una croce, simbolo cristiano, che non mi appartiene e con scritto il mio nome». Dopo di lei, anche un’altra donna ha raccontato un’esperienza simile. «Mi sono recata al Cimitero Flaminio e ho scoperto che c’è una tomba a mio nome. All’ufficio mi hanno stampato un foglio con i dati della salma e la sua ubicazione con tanto di cartina per l’orientamento. Tutto senza il mio consenso e senza che io ne fossi minimamente a conoscenza».

Oltre alla questione del loro nome sulla targa, apposto senza consenso, per capire in che modo siano state possibili delle sepolture con lapide e in alcuni casi accompagnate da vere e proprie cerimonie – sempre senza il consenso di nessuna – è necessario cercare di capire come funzionano o non funzionano le cose.

Il regolamento: la sepoltura su richiesta è sempre possibile
La sepoltura dei feti o dei prodotti del concepimento è consentita in Italia fin dal 1990 ed è normata dall’articolo 7 del decreto del presidente della Repubblica numero 285 sul regolamento di polizia mortuaria. Il decreto fa tre distinzioni in base all’età gestazionale: nati morti, prodotti abortivi/feti e prodotti del concepimento. Per i primi e i secondi si stabilisce l’obbligo di sepoltura, per i terzi si dice che la sepoltura è facoltativa e avviene su richiesta.

Al primo comma il regolamento si occupa dei “nati morti” rimandando a un regio decreto del 1939. Il feto, di presunta età gestazionale superiore alle 28 settimane, se viene dichiarato come nato morto seguirà gli stessi procedimenti che autorizzano la sepoltura di una persona defunta (registrazione anagrafica e sepoltura).

Il decreto prosegue con il comma 2 e 3:

Per la sepoltura dei prodotti abortivi di presunta età di gestazione dalle 20 alle 28 settimane complete e dei feti che abbiano presumibilmente compiuto 28 settimane di età intrauterina e che all’ufficiale di stato civile non siano stati dichiarati come nati morti, i permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale.

A richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane.

L’ultimo comma, precisa:

Nei casi previsti dai commi 2 e 3, i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione od estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto.

Il regolamento, dunque, stabilisce e tutela la libertà di scelta per quanto riguarda la sepoltura, indipendentemente dall’età gestazionale. E dice che il feto che ha un’età compresa tra le 20 e le 28 settimane e non è stato dichiarato “nato morto” all’ufficiale di stato civile verrà seppellito. In questo caso, i permessi di trasporto e di sepoltura saranno rilasciati dalle aziende sanitarie locali e a meno che le persone coinvolte non facciano richiesta di farsene carico sarà l’Asl stessa a occuparsi della sepoltura. Di norma, i feti tra le 20 e le 28 settimane vengono avviati all’interramento in campo comune al pari delle parti anatomiche riconoscibili.

Il regolamento dice inoltre che si possono tumulare su esplicita richiesta anche gli embrioni e tutto ciò che con la norma precedente a quella del 1990 veniva smaltito in modo automatico direttamente dalla struttura ospedaliera come rifiuto speciale sanitario. In assenza di esplicita richiesta di quelli che il regolamento definisce “genitori”, i prodotti del concepimento fino alla 20esima settimana continuano dunque a essere trattati come rifiuti speciali sanitari. Almeno in teoria.

Le sepolture a insaputa delle donne che hanno abortito
Come abbiamo scritto, la libertà di scelta per chi vuole seppellire un feto abortito – per volontà di interrompere la gravidanza, per un aborto terapeutico o per un aborto spontaneo – è di fatto garantita. La sepoltura dopo un’interruzione di gravidanza è una scelta personale: ha a che fare con il lutto, se l’esperienza dell’aborto viene vissuta come tale, con il proprio modo di elaborarlo e, spesso, con il proprio credo religioso.

Il problema è quando questo rituale avviene senza che ne venga data alcuna chiara comunicazione alla donna e alle altre persone direttamente coinvolte; se si pretende che la sepoltura avvenga sempre e comunque e che sia, in alcuni casi, a carico del sistema sanitario pubblico; e se il tutto viene affidato ad associazioni cattoliche che si fanno carico della sepoltura e dei riti religiosi.

Alcune regioni e diverse amministrazioni comunali, negli anni, non si sono limitate a recepire il regolamento nazionale del 1990 ma – assumendo la lotta dei movimenti anti-abortisti – hanno deliberato in modo autonomo, introducendo al regolamento delle modifiche sostanziali. In Veneto, per esempio, alla fine del 2017 è stato approvato un emendamento alle norme in materia funeraria ed è stato stabilito che «ad ogni aborto, verificatosi in una struttura sanitaria accreditata, anche quando l’età presunta del concepito sia inferiore alle ventotto settimane, nel caso in cui il genitore o i genitori non provvedano o non lo richiedano, l’inumazione, la tumulazione o la cremazione è disposta, a spese dell’azienda ULSS, in una specifica area cimiteriale dedicata o nel campo di sepoltura dei bambini del territorio comunale in cui è ubicata la struttura sanitaria».

La giunta regionale della Lombardia guidata da Roberto Formigoni, nel 2007, fece una cosa simile: stabilì cioè che in assenza di esplicita richiesta, anche sotto le 20 settimane si procedesse alla sepoltura (nel 2019 la norma è stata cancellata e lo scorso anno la Lega ha chiesto di reintrodurla). Una norma dello stesso tipo è stata approvata in Campania, nelle Marche e in diversi comuni. In molti altri si è tentato di farlo (a Roma, nel 2019, su proposta di Fratelli d’Italia, per dirne uno).

Queste modifiche hanno spesso il primo obiettivo di rendere sistematica alla donna che ha avuto o scelto un aborto l’informazione che è possibile chiedere la sepoltura di feto ed embrione. Dopodiché, indipendentemente dalla richiesta e dunque a prescindere dalla volontà e dal consenso della donna, le modifiche hanno stabilito un automatismo nella sepoltura anche al di sotto delle 20 settimane. Hanno insomma rovesciato la logica alla base del regolamento nazionale, istituendo una prassi che lo supera.

Spesso, poi, l’informazione alla donna che ha interrotto una gravidanza o non viene data o viene data verbalmente, e anche quando viene data attraverso un modulo da firmare si ferma alla possibilità di farsi o non farsi carico della sepoltura. Non viene cioè data l’informazione su cosa, in assenza di esplicita richiesta o a seguito della firma su un modulo di rinuncia a farsi carico della sepoltura, comunque accadrà ai resti. E sapere che cosa accadrà non è semplice: anche se non c’è un regolamento regionale o comunale specifico e anche se il principale riferimento resta il regolamento nazionale del 1990, è possibile che accada qualcosa che “va oltre”.

Il ruolo delle associazioni cattoliche
Oltre alle modifiche regionali e comunali dei regolamenti cimiteriali, oltre all’informazione parziale data alle donne, all’istituzionalizzazione dei cosiddetti cimiteri dei feti, alla creazione di registri comunali dei “bambini mai nati” (come avvenuto a Marsala), in molte città vengono firmati dei protocolli di intesa con associazioni cattoliche antiabortiste che si fanno carico, a modo loro, della gestione dei prodotti del concepimento.

Molte di queste associazioni insistono nel dire che agiscono nella legalità, facendo leva sull’assenza di un’esplicita richiesta di sepoltura e sulla generica formula “chi per essi” contenuta nel quarto comma del regolamento nazionale. Regolamento che interpretano in chiave restrittiva, integrandolo con una circolare ministeriale del 1988 firmata dall’allora ministro della Salute Carlo Donat Cattin che dice: «Il seppellimento deve di regola avvenire anche in assenza di richiesta dei genitori, posto che lo smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali urta contro i principi dell’etica comune».

Ma queste associazioni agiscono, soprattutto, in base a precise convenzioni stipulate con istituti sanitari o comuni che, in assenza di esplicita richiesta della donna, appaltano a questi movimenti la gestione dei prodotti abortivi di età presunta inferiore alle 20 settimane e, in alcuni casi, anche di quelli di età superiore. Trascorse dunque le 24 ore entro le quali “i genitori” scelgono di non farsi carico della sepoltura, gli unici soggetti che restano in campo sono l’associazione stessa e la struttura sanitaria che dispone del rifiuto ospedaliero.

Un’associazione che lavora sulla sepoltura di quelli che genericamente definisce “bambini mai nati” (intendendo come “bambino” ogni forma intrauterina successiva all’atto al concepimento) è “L’Armata Bianca”: sul proprio sito specifica che in caso di «bimbi uccisi dall’aborto» e dopo un protocollo di intesa con le aziende ospedaliere è possibile procedere con la sepoltura su richiesta del movimento stesso, «che impersona il “chi per essi” previsto dalla legge». Concretamente gli associati vanno in ospedale, forniscono i contenitori dove mettere i resti, si accordano con il comune o, a loro spese, con le pompe funebri per il trasporto e prendono accordi con un prete «che ogni mese benedica le piccole salme usando il rituale della Chiesa cattolica per i funerali dei bambini». Infine, accompagnano le stesse «in processione al luogo stabilito per la sepoltura recitando il rosario durante le operazioni di seppellimento».

Una delle più note associazioni di questo settore è “Difendere la vita con Maria” (Advm): è attiva in 19 regioni, ha almeno 60 sedi locali e grazie alle convenzioni stipulate con le aziende ospedaliere e le Asl (i dati sono del 2018) dice di aver dato sepoltura «a più di 200mila bambini non nati». Con questa associazione collabora, tra gli altri, anche l’istituto pediatrico Gaslini di Genova, il cui direttore generale Paolo Petrali, nel 2018 ad Avvenire, diceva: «Il nostro istituto (…) ha nelle sue corde fondative la presa in carico e la cura del bambino e della sua famiglia, di ogni etnia, razza, età e condizione sociale, e in ogni fase della vita. E poiché la vita inizia dal concepimento, pensiamo che prendersene cura vuol dire anche adottare comportamenti giusti e appropriati, con un percorso di presa in carico con cui si dà dignità e rispetto a una persona che non c’è più»

Nello stesso articolo Giuseppe Popolo, direttore responsabile di neonatologia degli Ospedali riuniti di Foggia, diceva: «Grazie alla convenzione con l’Advm portiamo a sepoltura tutti i feti che vengono abortiti spontaneamente oppure per problemi medici. Con l’aborto nasce nella donna un vuoto enorme, che porta spesso a depressione. Per superare il lutto, ogni mamma ha bisogno di piangere sulla tomba del proprio figlio».

La storia di Marta Loi è stata resa pubblica nella giornata internazionale per l’accesso a un aborto libero e sicuro. L’opposizione alla legge 194, al diritto e alla libertà di autodeterminazione delle donne si manifesta in molti modi, come sostengono da decenni i movimenti femministi: attraverso l’obiezione di coscienza negli ospedali, l’obiezione di coscienza nei consultori e nelle farmacie (che di fatto viene praticata), attraverso il finanziamento pubblico regionale a strutture che si fanno chiamare consultori ma che non lo sono, attraverso una costante, ben organizzata e capillare presenza delle reti anti-scelta che hanno spesso molti legami politici, attraverso ingerenze confessionali nelle quali, in alcuni casi, la politica ha parte attiva. E attraverso narrazioni e pratiche (spesso avvallate dalle istituzioni, come abbiamo visto) che colpevolizzano e criminalizzano le donne.