Una canzone dei Dexys midnight runners

Rimuginare ricordi, e affondare un successo planetario appena ottenuto

(Gareth Cattermole/Getty Images)
(Gareth Cattermole/Getty Images)

Le Canzoni è la newsletter quotidiana che ricevono gli abbonati del Post, scritta e confezionata da Luca Sofri (peraltro direttore del Post): e che parla, imprevedibilmente, di canzoni. Una per ogni sera.
Esce su Netflix
un film di Aaron Sorkin, autore tra le altre cose di West wing, The newsroom, Moneyball, formidabile scrittore di dialoghi e geniale costruttore di encomiabili modelli morali nei film e nelle serie. Il film è dedicato al processo dei “Chicago 7” arrestati durante le proteste contro la convention Democratica a Chicago nel 1968. Una storia che alcuni di noi hanno imparato la prima volta seguendo il testo di Chicago, la canzone di Graham Nash cantata da Crosby, Stills, Nash & Young in Four way street.
Won’t you please come to Chicago for the help that we can bring
We can change the world rearrange the world

Oggi compie 50 anni Ani Di Franco, quella di questa canzone qui.

Reminisce (part two)
Tra i miei dieci dischi preferiti di sempre che non stanno in nessuna raccolta di dischi migliori di sempre c’è di sicuro Don’t stand me down dei Dexys midnight runners. Purtroppo lo ascoltavamo sempre quando avevamo 25 anni e facevamo delle gran feste in una casa di campagna, e quindi non posso giudicare quanto questo gravi sul mio amore per quel disco: ma d’altronde su ogni giudizio musicale grava un pezzo dei propri ricordi, riferimenti, sensibilità, vite.

E quindi togliamoci dai miei ricordi. Loro sono una band inglese che negli anni Ottanta fece tre gran dischi in cui mise insieme folk-rock, pop e “northern soul”, insieme a invenzioni tutte proprie. Del primo andò forte nel Regno Unito soprattutto la canzone che si chiamava Geno, e che rispolverammo come sigla di Condor, il programma che facemmo ogni giorno per alcuni anni con Matteo Bordone, su Radio2. Era una gran sigla, per via dei fiati e delle acclamazioni iniziali. Del secondo disco andò forte in tutto il mondo, e anche in Italia, la canzone che si chiamava Come on Eileen, e quella la sapete.

Il capo della band, e l’unico a starci dentro sempre (anche perché dopo un po’ non lo sopporta nessuno), era Kevin Rowland, “personaggione”, come si dice. Malgrado si sia inventato idee musicali diverse e ammirevoli una delle cose per cui è rimasto più famoso è una copertina di un disco del 1999 che ancora gli rinfacciano.

Ma torniamo al terzo disco degli anni Ottanta, che fu – nello stile di Rowland – un suicidio commerciale che invece di beneficiare dei successi del precedente fece di tutto per allontanarsene. Ci riuscì con canzoni quasi tutte di almeno sei minuti, a volte fatte di chiacchiere e declamazioni un po’ ebbre e suoni da bar: alcune trascinanti (soprattutto alle mie feste di 25enne), altre malinconiche e stordite, come Reminisce part two. Rowland chiacchiera, tra sé e sé, recuperando ricordi e citando canzoni, e canticchiando I’ll say forever my love di Jimmy Ruffin a un certo punto.
The other day I heard a record on the radio, that sweet record, “The Wedding Bell Blues”. It brought me back to the summer, I started to think about the summer of 1969. It’s funny how you remember the summers by the records and two records stood out for me that year… there was “The Wedding Bell Blues” and “Leaving On A Jet Plane”.

Non so, mi dispiace non ci foste a quelle feste, ci siamo divertiti.
But I’ll always remember those days

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