«Roma o morte»

150 anni fa due divisioni di fanti e bersaglieri aprirono una breccia nel muro di Porta Pia: era il primo passo per rendere Roma capitale d'Italia, togliendola al Papa

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Monumento al bersagliere a Porta Pia, Roma (ANSA/ALESSANDRO DI MEO)

All’alba del 20 settembre 1870 due divisioni dell’esercito italiano, l’11esima e la 12esima, erano appostate fuori dalle mura di Roma, tra i giardini e i campi coltivati. Erano rivolte verso il tratto di mura tra Porta Pia e Porta Salaria, a nordest: era uno dei punti della città difesi nel modo peggiore, e i fanti e i bersaglieri delle due divisioni si trovavano lì per prenderlo d’assalto e conquistare Roma. Il bombardamento cominciò alle 5.30 e nel giro di mezz’ora i pochi cannoni delle truppe del Papa Pio IX vennero messi fuori uso: la breccia fu aperta però solo dopo più di tre ore di bombardamenti, durante le quali l’esercito italiano dovette resistere al fuoco di artiglieria dei pontifici.

Quella mattina non fu solo Porta Pia ad essere attaccata. Le truppe italiane bombardarono simultaneamente anche altri punti della città – Porta San Giovanni, Porta San Pancrazio, Porta San Sebastiano – in modo da circondare le truppe del Papa dentro le mura e costringerle alla resa senza scontri troppo violenti, che avrebbero messo il governo italiano in difficoltà dal punto di vista diplomatico. L’ideale era prendere la città in fretta, senza che il Papa e le sue truppe passassero da martiri.

Per capire il perché esattamente 150 anni fa l’esercito italiano stesse tentando di conquistare quella che oggi è la capitale d’Italia, bisogna fare un passo indietro.

Nel 1870 l’Italia era unita da 9 anni, ma il processo di unificazione dei territori non era finito. Mancavano appunto lo stato pontificio – ridotto ormai ai territori che comprendevano Roma, Viterbo e Frosinone – e quello che oggi è il Trentino-Alto Adige. Il regno lombardo-veneto era stato annesso solamente 4 anni prima, perciò la monarchia cominciò a concentrarsi sull’ultimo obiettivo che avrebbe portato a compimento il progetto unitario: Roma capitale.

Perché proprio Roma? Al di là delle ragioni più ovvie, legate al fatto che Roma era ed è la città con più storia e importanza dal punto di vista politico e religioso, ce ne sono altre legate alle vicende di quel secolo. Nel 1849 c’era stata una rivolta popolare che era riuscita a cacciare il papa da Roma con l’aiuto di volontari e patrioti provenienti da tutta Italia, compresi personaggi come Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Goffredo Mameli: a Roma si instaurò una repubblica che però ebbe vita breve a causa dell’intervento francese. L’esito infelice di quella esperienza fece nascere una voglia di rivalsa e un sentimento di ingiustizia nei garibaldini e nei nazionalisti piemontesi che si alimentò anche dopo il 1861: Roma, nella loro visione, era la naturale capitale del Regno d’Italia, usurpata dal potere temporale del Papa, superato dai tempi e retrogrado nel modo di amministrare.

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Nel marzo 1861, pronunciando un discorso alla Camera dei Deputati, l’allora presidente del Consiglio Cavour disse:

Se si potesse concepire l’Italia costituita in unità in modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile, la soluzione della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma sia unita all’Italia? Perché senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire.

Era quella che lo storico Hubert Heyriès ha definito «una vera e propria fissazione», non solo dei vertici del nuovo stato unitario ma anche di Garibaldi e dei suoi seguaci. Si racconta che nell’estate del 1862, mentre i garibaldini si preparavano a risalire la penisola e conquistare Roma partendo da Sud, Garibaldi abbia promesso alla folla siciliana che sarebbero entrati nelle «sacre porte di Roma a onta dello straniero che vi monta la guardia». E la folla rispose con il grido «Roma o morte», frase che peraltro si trova scritta sulla base della statua equestre di Garibaldi stesso, al Gianicolo, a Roma. Tuttavia, l’impresa non fu appoggiata dal governo di allora e Garibaldi fu fermato.

A complicare la presa di Roma era infatti proprio la cosiddetta «questione romana» di cui parlava Cavour: nonostante lo stato pontificio fosse ormai in declino ed economicamente irrilevante, aveva ancora un grande peso politico, soprattutto nella Francia di Napoleone III, il quale aveva bisogno del consenso dei cattolici francesi per mantenere il potere e per questo proteggeva il Papa, anche con un contingente militare di stanza nello stato pontificio.

Per evitare di ritrovarsi contro sia le truppe del Papa che quelle di Napoleone III, quindi, era necessario trovare una soluzione. Dopo trattative diplomatiche durate anni, alla fine la situazione si sbloccò proprio a settembre del 1870, dopo la sconfitta di Napoleone III contro la Prussia e la dissoluzione del suo impero. Il governo repubblicano che andò al potere era fortemente anticlericale, e il ministro degli Esteri francese Jules Favre disse a quello italiano che sulla questione romana lo avrebbe lasciato fare quello che voleva.

Alle 10 del mattino del 20 settembre, quindi, Roma era stata conquistata. Il generale pontificio, Hermann Kanzler, mandò le condizioni per la resa, che il generale italiano Raffaele Cadorna accettò: la consegna di tutte le armi e le munizioni presenti in città, a eccezione di quelle presenti nella cosiddetta città leonina (corrispondente circa allo stato Vaticano di oggi), gli onori di guerra alle truppe pontificie e la possibilità per gli ufficiali di tenere armi e cavalli. I soldati, invece, che erano in gran parte stranieri, sarebbero stati rimpatriati nei loro paesi d’origine a spese del governo: il 21 settembre vennero benedetti da Pio IX in piazza San Pietro e poi se ne andarono da Roma.

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