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  • Venerdì 18 settembre 2020

Dove andrà Milano?

A pochi mesi dal voto – e in una situazione radicalmente diversa da soli sei mesi fa – Beppe Sala non ha ancora deciso se ricandidarsi: abbiamo cercato di capire cosa può accadere

di Luca Misculin

(ANSA / MATTEO BAZZI)
(ANSA / MATTEO BAZZI)

Milano è una città abituata a esprimere sindaci figli del proprio tempo. Negli anni Ottanta fu un dominio socialista, per poi passare alla Lega Nord non appena quel partito si affacciò nel dibattito nazionale. Nel 2011 l’elezione di Giuliano Pisapia fu considerata una delle prime crepe nel calo definitivo del consenso di Silvio Berlusconi. Cinque anni dopo Beppe Sala rappresentò invece l’espressione di un centrosinistra civico e liberale che sembrava destinato a soppiantare il modello precedente, mentre lo stesso sembrava accadere nel resto del paese. E adesso?

Le elezioni del nuovo sindaco, previste per la primavera del 2021, si terranno in uno scenario completamente diverso. Il progetto di far compiere a Milano il passo che le mancava per diventare Londra o Parigi – iniziato con l’Esposizione universale del 2015, di cui l’attuale sindaco Beppe Sala è stato tra i principali artefici in qualità di commissario unico, e che ha avviato un momento straordinario di sviluppo – è stato forzatamente accantonato dalla pandemia da coronavirus. Gli uffici, le università, i ristoranti e i teatri si sono svuotati da un giorno all’altro e non torneranno a pieno regime a breve termine, così come non torneranno gli eventi e i turisti che negli ultimi anni avevano portato molta ricchezza. Nel futuro prossimo Milano rischia di essere una città più povera, in tutti i sensi: circoleranno molti meno soldi e competenze e opportunità di prima, in una città che ha costruito la sua immagine sui soldi, sulle competenze, sulle opportunità.
Che sindaco richiedono questi tempi?

Queste sono solo alcune delle riflessioni che stanno circolando negli ambienti della politica milanese, che il Post ha raccolto parlando con una decina di persone informate e interessate alle cose che si muovono dentro e fuori dai partiti politici in vista del voto, considerato uno dei più rilevanti a livello nazionale del 2021, dato che Milano sarà l’unica metropoli del Nord in mano al centrosinistra a scegliere il proprio sindaco. Alcuni di loro hanno accettato di parlare in forma anonima.

Il primo ad avere dei dubbi – su di sé, sul suo ruolo e il mondo che verrà – è proprio il sindaco Sala. A circa sette mesi dal giorno in cui si terranno le elezioni, settimana più o settimana meno, Sala non ha ancora chiarito se si ricandiderà o meno. Virginia Raggi, eletta quattro anni fa allo stesso giro di Sala, ha annunciato la sua ricandidatura più di un mese fa. Il suo predecessore Giuliano Pisapia confermò che non si sarebbe ripresentato un anno prima del voto.

Il problema è che Sala sembra sinceramente indeciso. Le cose che dice in pubblico non sono molto diverse da quelle che emergono dalle persone con cui intrattiene rapporti professionali e personali, che lo descrivono soprattutto come «stanco». «Mi sto interrogando se ce la faccio a ricandidarmi e a prendermi sulle spalle altri cinque anni di vita molto sacrificata. Ne ho già fatti dieci tra il primo mandato ed Expo», raccontò a giugno alla trasmissione tv Tagadà. «Sto facendo una serie di valutazioni che hanno carattere personale», ha ribadito pochi giorni fa al Corriere della Sera.

Ultimamente, poi, Sala sembra aver perso una certa connessione sentimentale con una parte della città. Fra marzo e maggio, quando durante le prime settimane della pandemia decise di pubblicare un video al giorno per tenere aggiornati i milanesi, Sala ha inanellato una serie di dichiarazioni nette e un po’ controverse sulle vacanze in Liguria, lo smartworking e il dibattito intorno alla statua di Indro Montanelli. In occasione del 2 giugno pubblicò una bizzarra foto che lo ritraeva in cima al Duomo con le frecce tricolori che gli sfrecciavano sopra la testa, in uno scenario vagamente venezuelano. A ogni polemica, così come alla vituperata foto su Instagram, sono seguiti centinaia di commenti polemici e sarcastici sui suoi account social.

Eppure diversi pezzi della società civile e del centrosinistra milanese sono ancora convinti che Sala sia la persona giusta per guidare la città nei prossimi cinque anni. «Se la sfida sarà sui temi ambientali e il futuro del modello-città, faccio fatica a immaginare qualcuno di diverso», racconta Marco Mazzei, fra gli organizzatori della critical mass milanese e attivista per i diritti dei ciclisti in città.

La tesi di fondo di molte persone che simpatizzano per l’amministrazione Sala è che nonostante l’occasionale dichiarazione fuori posto e alcune questioni puntuali e isolate, l’attuale sindaco abbia lavorato bene e abbia un’idea di città chiara e condivisibile: attraente per le multinazionali, i turisti, gli operatori legati agli eventi e alle week – la fashion week, la green week, la digital week – eppure sensibile alle istanze degli ultimi, come dimostra il “modello Milano” di accoglienza diffusa per i richiedenti asilo, portata avanti dal radicato e influente terzo settore con la supervisione del Comune, e i grandi investimenti del “Piano Quartieri” nelle periferie. Proiettata nei prossimi dieci e quindici anni grazie a progetti che cambieranno faccia alla città come la riqualificazione degli scali ferroviari e la costruzione delle nuove metropolitane, ma attenta alle cose che si possono cambiare ora, come la realizzazione di nuove piste ciclabili – ce ne sono più del triplo rispetto a quindici anni fa, la maggior parte delle quali costruite dalle amministrazioni di centrosinistra – e gli esperimenti di urbanismo tattico in giro per la città. In questa visione, la pandemia è poco più di un incidente di percorso verso la Milano che verrà.

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Non tutti ritengono però che questo modello, che tiene insieme persone e mondi lontanissimi cercando di non trascurare nessuno, sia sostenibile nel lungo termine. «L’impressione è che Milano vada verso un modello Londra: una città molto attrattiva dal punto di vista internazionale, che però tende a espellere dal contesto urbano chi non può permettersi un certo tenore di vita», spiega una fonte vicina agli ambienti della sinistra milanese al di fuori del PD.

Uno dei punti principali su cui si basa l’opposizione a Sala da sinistra – formata soprattutto da Rifondazione Comunista e Possibile, il partito fondato da Pippo Civati – è l’aumento spropositato dei costi degli affitti e dei prezzi delle case avvenuto negli ultimi dieci anni, a fronte delle ridotte dimensioni della città e della sua forte attrattività dal resto d’Italia e dall’estero. La stessa fonte spiega che gli strumenti a disposizione del Comune non sono moltissimi, ma che negli ultimi anni non si è fatto nemmeno quel poco che si poteva fare. Inoltre, aggiunge, «Milano è una delle città europee che ha gli oneri di urbanizzazione più bassi», cioè le tasse che si pagano al Comune per costruire nuovi edifici: «dovremmo aumentarli, anche solo leggermente, e usare i fondi per altre cose». Per esempio ristrutturare le case popolari gestite dalla società comunale Metropolitane Milanesi (MM) nei quartieri di periferia, cosa che si sta facendo lentamente ma da anni.

La questione delle periferie è citata dai sostenitori di Sala dentro e fuori dal Partito Democratico come una delle più delicate e importanti da affrontare in un eventuale secondo mandato. Nel 2016 Sala si era detto «ossessionato» dal divario sempre più ampio fra il centro e le zone più periferiche della città, un problema comune a moltissime città europee. Nel corso degli anni sono stati avviati vari progetti di riqualificazione e coinvolgimento della società civile, ma tutte le persone con cui il Post ha parlato, indipendentemente da come valutano l’operato di Sala, ritengono che si debba fare di più.

L’amministrazione Sala ci tiene a sottolineare i progressi fatti in questi anni in molti quartieri, a partire dal cosiddetto NoLo – che si sviluppa attorno a via Padova, fino a pochi anni fa una delle zone più malfamate della città – e dai cambiamenti urbani che presto investiranno il Giambellino, in cui fondi europei e regionali permetteranno di ristrutturare case popolari, costruire la nuova biblioteca e finanziare piccole attività imprenditoriali.

Ma accanto a Nolo e al Giambellino esistono quartieri come Gratosoglio e Quarto Oggiaro, che da anni si portano dietro problemi ancora irrisolti. A Gratosoglio, l’ultimo quartiere a sud prima del confine urbano, occupato in gran parte da case popolari gestite da Aler (cioè Regione Lombardia, guidata dal centrodestra), ex operai e impiegati ormai anziani vivono a fianco di famiglie immigrate dal Nord Africa fra i dieci e i quindici anni fa. Nel quartiere scarseggiano i presidi comunali – non ci sono uffici, biblioteche, musei, piscine o parchi pubblici – e la gestione della convivenza è stata affidata interamente al terzo settore e alle scuole, con risultati a tratti incoraggianti e a tratti problematici. Difficilmente la situazione migliorerà nel futuro prossimo, in cui la città sarà impegnata a rimettere in moto i suoi settori più redditizi.

All’estremo opposto della città, nella periferia nord, gruppi trasversali di abitanti stanno protestando per la costruzione di una enorme vasca – condivisa da Comune, Regione e governo nazionale – che limiti le esondazioni del Seveso, che un paio di volte all’anno crea problemi a quartieri più centrali come Isola e la Maggiolina. Chi abita in zona però teme che per evitare di allagare le parti più visibili della città si finisca per spostare il problema in periferia o nell’hinterland, costruendo delle pozze di acqua sporca e maleodorante.

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È in posti come questi che il centrodestra sta cercando di costruire consensi per offrire un modello alternativo a quello di Sala. «Se arrivi da certe zone sei figlio di un dio minore», spiega Gianmarco Senna, consigliere regionale della Lega da molti anni attivo a Milano. «Le periferie sono abbandonate a se stesse», spiega Senna, secondo cui Sala si è concentrato eccessivamente sul «taglio dei nastri e gli eventi glamour», e «vivendo di rendita» grazie alle decisioni prese più di dieci anni fa dal centrodestra, come la riqualificazione di Porta Nuova e la costruzione della quarta metropolitana (nel frattempo ne è stata aperta e inaugurata anche una quinta, la Lilla).

Senna sostiene che esista una inclusione sostenuta dal centrosinistra e una «vera inclusione», che riguarda gli abitanti delle periferie e quelli della città metropolitana, il cosiddetto hinterland. Proprio a Gratosoglio, in un ristorante circondato dalle case popolari, la Lega festeggiò il risultato elettorale delle elezioni politiche del 2018.

«Non è casuale che non siamo andati a brindare al ristorante di Cracco in Galleria. Noi siamo la Lega e facciamo una scelta diversa: ripartiamo dalle periferie dove la gente tocca con mano quali sono i problemi da risolvere in questo paese», disse quella sera Matteo Salvini. A quelle elezioni nel collegio uninominale che comprende Gratosoglio e altri quartieri della cintura sudest fu eletta alla Camera una storica politica di Forza Italia, Federica Zanella, ma la Lega sfiorò comunque il 20 per cento risultando il partito più votato del centrodestra.

Eppure, il Partito Democratico è ancora convinto che Sala sia il miglior candidato possibile per Milano: per il partito il bilancio dell’amministrazione è ampiamente positivo, e il fatto che Sala stesso abbia riconosciuto che vanno aumentati gli sforzi sulle periferie indica che il sindaco e il partito sono sulla stessa lunghezza d’onda su come impostare i prossimi anni. Altri sottolineano che nonostante il contraccolpo causato dalla pandemia Milano rimarrà sulla scena internazionale anche nei prossimi anni: le olimpiadi invernali che condivide con Cortina si terranno proprio negli ultimi mesi di mandato del prossimo sindaco, nell’inverno del 2026. «Se c’è una persona che può fare leva su un grande evento internazionale per rilanciare la città dopo la botta subita, quella persona è lui», spiega una fonte del PD milanese.

Per tutte queste ragioni Sala sta ricevendo pressioni da vari pezzi del partito per ricandidarsi, e molti sono convinti che alla fine accetterà di farlo. «Sono convinto che Sala si ricandiderà e mi pare la scelta migliore per Milano: saremo il laboratorio della ricostruzione», dice Pierfrancesco Majorino, oggi parlamentare europeo del PD ma a lungo assessore e consigliere comunale molto noto in città e apprezzato anche da parte della sinistra esterna al PD.

Se invece Sala non si ricandidasse, però, l’opinione diffusa nel centrosinistra è che potrebbe succedere di tutto.

Dal Partito Democratico danno per scontato che in quel caso si terrebbero delle elezioni primarie aperte a tutto il centrosinistra per scegliere il candidato sindaco, come peraltro già avvenuto nel 2006, nel 2010 e nel 2016. Per molti osservatori i due candidati naturali sarebbero quelli che chiamano «i due Pier»: cioè Majorino, ex assessore al Welfare, noto anche a livello nazionale, da sempre riferimento dell’ala sinistra del partito; e Pierfrancesco Maran, assessore sia con Pisapia sia con Sala, prima ai Trasporti e ora all’Urbanistica.

Maran è storicamente vicino all’ala riformista del partito che un tempo si era schierata convintamente con Matteo Renzi, e diversi hanno notato che nelle ultime settimane è sembrato ancora più attivo del solito: a metà agosto ha organizzato una specie di festival in uno spiazzo sul Naviglio della Martesana in cui si è discusso soprattutto del futuro della città con politici, artisti, giornalisti e militanti del partito. Dopo essere stato a lungo assessore, e prima ancora giovanissimo consigliere comunale e consigliere di zona, sono in molti a ritenere che il passo successivo sia proprio la candidatura a sindaco.

Alle primarie parteciperebbero quasi sicuramente anche i pezzi del centrosinistra cittadino fuori dal PD. I Verdi dovrebbero candidare Elena Grandi, portavoce nazionale del partito e vicepresidente del Municipio 1, quello del centro storico. La sinistra cercherebbe un nome su cui convergere per provare a sparigliare le carte e attrarre i voti dell’ala sinistra del PD, come già capitò nel 2010 con Pisapia.

«Se una donna con un profilo di sinistra se la gioca bene, può vincere», ipotizza Valentina La Terza, ex parlamentare del PD scelta con le primarie di Sinistra e Libertà, oggi impegnata nel terzo settore: «di profili credibili ce ne sono, e chi dice che non esistono non li vuole vedere: le Ada Colau ce le abbiamo anche noi», spiega riferendosi alla sindaca di Barcellona, che ha vinto due elezioni comunali dopo una vita passata nei movimenti di attivismo di sinistra della città. Al momento, però, di altri nomi se ne fanno pochissimi: dentro e fuori dai partiti.

A seconda della decisione di Sala e delle eventuali primarie, potrebbe cambiare anche la coalizione che sfiderà il centrodestra.

Già da tempo sono in corso diverse manovre per affiancare a Sala diverse liste civiche, per cercare di coprirlo a sinistra e al centro nel caso di una sua ricandidatura: alla prima ipotesi sta lavorando Paolo Limonta, attuale assessore all’Edilizia scolastica, che viene dal mondo che riuscì a imporre la candidatura di Pisapia. L’idea di base è quella di replicare la lista che elesse Elly Schlein alle ultime regionali in Emilia-Romagna: saldamente di sinistra, ma a sostegno del candidato scelto dalla coalizione. Alla seconda fa riferimento il mondo del cattolicesimo democratico milanese, che va dalle ACLI fino al partito centristra Demos (l’appoggio a Sala dei principali partiti centristi, +Europa e Italia Viva, viene dato per scontato).

Nessuno sa esattamente cosa farà il Movimento 5 Stelle, che a Milano ha sempre raccolto pochissimi voti e oggi esprime appena due consiglieri comunali, Gianluca Corrado e Patrizia Bedori. Nessuno sembra credere all’ipotesi che possano sostenere esplicitamente Sala o un qualsiasi candidato del centrosinistra: dal Partito Democratico spiegano che sarebbe difficile spiegare a militanti locali ed elettori una eventuale alleanza imposta da Roma, nonostante i due partiti ormai da mesi abbiano negoziato candidature condivise alle elezioni regionali, riuscendoci per esempio in Liguria e in Umbria. Anche l’ipotesi di un eventuale accordo che comprenda le elezioni comunali di Torino e Roma – due città attualmente governate dal M5S, in cui si voterà nella stessa tornata elettorale di Milano – per ora non trova riscontri.

La sinistra-sinistra almeno al primo turno dovrebbe esprimere un proprio candidato: le cose potrebbero cambiare se dalle primarie dovesse emergere qualcuno più a sinistra di Sala o Maran.

Anche il centrodestra sta aspettando di sapere cosa farà Sala, ma qualcosa si sta muovendo anche in quell’area. È dato per assodato, per esempio, che il nome verrà scelto dalla Lega, che dalle elezioni del 2018 è stabilmente il partito di destra più votato in città. A giugno Salvini aveva promesso di scegliere il candidato sindaco da proporre alla coalizione di centrodestra «entro l’estate». Le riflessioni però sono ancora in corso.

Stefano Bolognini, responsabile cittadino della Lega, ha indicato più volte un profilo molto preciso: manager di una grande azienda, cinquantenne, possibilmente impegnato nel sociale. Anche il consigliere regionale Gianmarco Senna parla di un «profilo milanese», che va scelto considerando che «Milano non è l’Italia, e nemmeno la Lombardia». Tutto fa pensare che la Lega stia valutando un profilo simile a quello di Stefano Parisi, ex direttore generale di Confindustria e amministratore delegato di Fastweb, che nel 2016 fu candidato dal centrodestra a poco più di quattro mesi dal voto.

La campagna di Parisi fu organizzata in fretta e furia e risultò piuttosto anonima, ma gli consentì comunque di giocarsela fino all’ultimo: al primo turno Parisi arrivò a meno di un punto percentuale da Sala, che lo precedette di circa cinquemila voti, mentre al ballottaggio perse con una distanza appena più ampia, di 3,4 punti.

La convinzione più diffusa è che la Lega sia obbligata a scegliere un profilo meno radicale dei consiglieri che esprime in consiglio comunale, per non spaventare l’influente borghesia milanese (da cui provengono quasi tutti i sindaci della città nella storia recente). Nessuno però esclude apertamente che Salvini possa sparigliare e trovare un profilo simile a Susanna Ceccardi, l’attuale candidata del centrodestra alla presidenza della Toscana: giovane amministratrice locale, lontana dalla classe dirigente tradizionale, soprattutto se a presidiare l’elettorato borghese ci sarà di nuovo Sala. Il nome più citato in questi ragionamenti è quello di Silvia Sardone, ex consigliera comunale di Forza Italia oggi parlamentare europea della Lega, nota soprattutto per i suoi toni combattivi e i video in cui segnala comportamenti sgradevoli, a suo dire, di stranieri e persone di etnia rom.

Sia nel centrodestra sia nel centrosinistra, comunque, la situazione viene descritta come molto fluida. Ne sapremo di più nelle prossime settimane: Senna spiega che il centrodestra indicherà un candidato entro la fine di ottobre. Sala invece ha organizzato per ottobre una serie di incontri alla Triennale a cui dovrebbero partecipare diversi assessori della giunta, attivisti e militanti: poi il PD si aspetta una risposta sulla ricandidatura. Se Sala dovesse decidere di non ricandidarsi, le primarie potrebbero essere organizzate a febbraio del 2021, per dare all’eventuale candidato o candidata almeno quattro mesi di tempo per la campagna elettorale.