Cosa ha fatto Luciana Lamorgese a Milano

L'incarico più delicato del nuovo governo è andato alla persona meno nota: per saperne di più è utile conoscere la sua esperienza da prefetto a Milano, in un periodo molto delicato

di Luca Misculin

(ANSA / MATTEO BAZZI)
(ANSA / MATTEO BAZZI)

Nei suoi quattordici mesi al governo, Matteo Salvini ha messo in pratica tutto quello che aveva mostrato e promesso ai suoi elettori: due decreti potenzialmente incostituzionali che hanno smantellato il sistema di accoglienza italiano, e una retorica che si basava in buona parte sulla diffusione di informazioni false o allarmistiche sui social network, la stessa che usava in campagna elettorale. In questo senso, vista anche la sua onnipresenza televisiva precedente al suo incarico al ministero dell’Interno, Matteo Salvini è stato prevedibile. Nessuno sa invece cosa aspettarsi dal suo successore: l’ex prefetto Luciana Lamorgese.

Lamorgese è l’unico “tecnico” del nuovo governo guidato da Giuseppe Conte, che ha giurato stamattina. Non usa i social network, non ha mai ricoperto una carica politica né partecipato attivamente alla vita di un partito. La sua carriera è decollata dopo la nomina a capo di gabinetto dell’allora ministro Angelino Alfano – un politico di centrodestra in un governo di centrosinistra – e negli anni è stata lodata pubblicamente da diversi politici di centrosinistra. Nelle sue rare uscite pubbliche ha detto cose come «chi scappa dalla fame ha diritto a trovare condizioni di vita migliori», apparentemente ignorando la distinzione fra migranti economici e rifugiati, e allo stesso tempo ha invocato una maggiore presenza e «visibilità» delle forze dell’ordine nelle strade. Per cercare di capire che tipo di ministro potrebbe essere, vale la pena concentrarsi sul suo incarico più recente e importante: quello di prefetto di Milano fra il 2017 e il 2018.

Lamorgese è nata a Potenza e ha 65 anni. Arrivò a Milano dopo una lunga carriera da funzionaria del ministero dell’Interno, culminata con la nomina a capo di gabinetto prima con Alfano poi con Marco Minniti, e una breve parentesi come prefetto di Venezia fra 2010 e 2012. Lamorgese entrò in carica in un periodo molto concitato per Milano e l’Italia: «C’era ancora un flusso significativo di migranti», ha raccontato Pierfrancesco Majorino, che all’epoca era assessore alle Politiche sociali della città e oggi fa il parlamentare europeo per il Partito Democratico.

Nel 2017 arrivarono in Italia via mare 119mila migranti, un numero inferiore rispetto ai tre anni precedenti ma ancora piuttosto consistente. La maggior parte di loro, come molte persone che partivano dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana, non era interessata a rimanere in Italia e cercava con ogni mezzo di arrivare nei paesi del Nord Europa. Migliaia di loro raggiungevano Milano per cercare di salire su un treno che li portasse in Francia o in Germania. Fin dal 2015 la zona della Stazione centrale era perciò diventata una delle più degradate della città, con gravi problemi sia per l’ordine pubblico sia per la sicurezza delle persone più vulnerabili che finivano per strada.

Anche per questa ragione, da mesi il comune di Milano stava pianificando un meccanismo di ridistribuzione dei richiedenti asilo in tutti i comuni della città metropolitana: sia per alleviare la pressione nei confronti delle zone più centrali della città sia per sperimentare un modello di integrazione diffusa, cioè distribuita in maniera omogenea su tutto il territorio metropolitano. L’idea era che se tutti i comuni avessero contribuito ad accogliere almeno un gruppo di richiedenti asilo, a nessuno sarebbe stata imposta l’apertura di un grosso Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS), che la prefettura ha il potere di mettere in piedi senza consultare le autorità locali, e i percorsi di integrazione degli ospiti sarebbero stati più facili da gestire.

Appena arrivata, Lamorgese pretese di incontrare i sindaci a piccoli gruppi, «perché alle riunioni dove siamo in tanti alla fine si parla, si parla, ma non si arriva a una concretezza», e provò a convincerli a cambiare modello, come in seguito ha raccontato a un seminario organizzato dalla Diocesi di Milano nel giugno di quell’anno: «Nella città metropolitana su 134 comuni circa 38 facevano accoglienza: ma non accoglievano volontariamente, lo facevano perché i prefetti nella disperazione dovevano sistemare [i migranti] e glieli mandavano, e trovavano loro stessi una sistemazione». L’approccio di Lamorgese prevedeva soprattutto un maggiore coinvolgimento dei sindaci, a cui veniva data una maggiore responsabilità rispetto al passato: «Ai sindaci dicevo: d’accordo, decidete voi sul territorio dove e come collocarli. Chi più di un sindaco può sapere qual è la collocazione migliore e meno impattante?».

In totale, i comuni limitrofi a Milano si impegnarono ad accogliere circa cinquemila richiedenti asilo. Il piano definitivo (PDF) fu firmato nel maggio del 2017, tre mesi dopo l’insediamento di Lamorgese. Poche settimane dopo Lamorgese annullò le ordinanze firmate da alcuni sindaci leghisti del milanese che avevano stabilito delle multe per chi metteva a disposizione case o appartamenti per ospitare richiedenti asilo (ordinanze poi giudicate discriminatorie anche dal Tribunale di Milano).

Non esistono rapporti ufficiali che possano confermarlo, ma il piano è stato considerato da più parti come un successo – aiutato dalla recente diminuzione dei flussi – e parte di quel successo viene attribuito alla neoministra all’Interno. «Se esiste il modello Milano del centrosinistra, quello della sicurezza partecipata, è anche grazie a lei», ha scritto Pietro Colaprico su Repubblica.

Parlando col Post, Majorino ha in parte ridimensionato il ruolo di Lamorgese – «è arrivata quando le cose erano state abbondantemente impostate» – ma ha spiegato che «il suo grande merito è non aver smontato nulla quando si capì che il centrosinistra era in declino, e infine quando arrivò Salvini». «Più che avere costruito un modello, l’ha difeso», ha aggiunto. Majorino non si è sbilanciato sulle idee politiche di Lamorgese, che definisce «una moderata». «Siamo partiti un po’ male perché quando era capo del gabinetto di Alfano avevo avuto pochi contatti e pessimi. Poi però nel lavoro concreto mi sono trovato molto bene: vengo da un percorso e un approccio diverso, ma ho sempre trovato in lei un interlocutore molto rispettoso e attento».

La stessa Lamorgese ha rivendicato di avere una sensibilità più acuta di altri in materia di immigrazione. Nello stesso seminario in cui sostenne che migrare per via della povertà è legittimo, Lamorgese ha raccontato che le capitò di visitare l’isola di Lampedusa nei giorni successivi a un enorme naufragio, nell’ottobre del 2013, e che quell’esperienza «ha cambiato il mio modo di vedere e vivere le cose». Le associazioni di Milano che si occupano di migranti sembrano aver riconosciuto a Lamorgese questa sensibilità. Alberto Sinigallia – presidente del Progetto Arca, una delle più importanti onlus che lavorano in città – ha raccontato che nei due anni di mandato di Lamorgese il dialogo con la prefettura è stato «sempre presente, per cercare di lavorare al meglio trovando soluzioni concrete ed equilibrate», e ha lodato Lamorgese per «la sua risaputa competenza e il suo pragmatismo».

All’attenzione per l’accoglienza Lamorgese abbina posizioni molto nette sul rispetto del decoro e le occupazioni abusive, coerenti con la sua carriera all’interno delle prefetture e del ministero dell’Interno, e piuttosto care ai partiti di destra. Al termine del suo mandato, scaduto nel settembre del 2018, Lamorgese si è vantata di avere eseguito «127 sgomberi», cioè la rimozione con la forza di persone ai margini della società, soprattutto immigrati irregolari e tossicodipendenti, da palazzi occupati abusivamente. Fra gli sgomberi più eclatanti si ricordano quello di un palazzo via Cavezzali, che Lamorgese ha ricordato di aver preparato per otto mesi, e di un altro al numero 59 di via Palmanova, nella zona di viale Padova, noto per un grosso giro di spaccio.

Lamorgese ha ripetuto più volte che tiene molto alla «percezione di sicurezza» dei cittadini, perché «la nostra idea di sicurezza deve andare oltre la statistica». A Milano in molti ricordano ancora una vastissima operazione di polizia avvenuta nel maggio 2017 davanti alla stazione centrale che diede pochissimi risultati e già all’epoca sembrò più un evento mediatico a favore di telecamere e passanti che una vera e propria operazione. La mattina di mercoledì 3 maggio, infatti, si presentarono sulla piazza davanti alla stazione circa 300 poliziotti, diversi mezzi blindati, squadre cinofile, agenti a cavallo e un elicottero. Dei 52 migranti portati in Questura, però, nessuno fu denunciato. Quattro di loro, senegalesi e gambiani, scoprirono anzi grazie agli agenti che la loro domanda per ottenere asilo era stata accolta.

Il sindaco di Milano Beppe Sala, espresso dal centrosinistra e in carica da meno di un anno, disse di non saper nulla di quell’operazione, e ancora oggi Majorino ricorda che ci fu «un difetto di comunicazione fra noi e il questore, poi superato». Parlando col Corriere della Sera nel settembre del 2018 alla fine del suo mandato, però, Lamorgese rivendicò quella e altre operazioni, spiegando che «sono stati controlli necessari, preparati con cura, con analisi e raziocinio».

In piazza quel giorno c’era anche il segretario della Lega Matteo Salvini, che fece una diretta su Facebook elogiando l’operazione. Negli anni del suo mandato a Milano Lamorgese ebbe buoni rapporti con la Regione Lombardia, che dal 2013 è governata dalla Lega. In queste ore in molti stanno ricordando che quando ricevette l’incarico, l’allora presidente della regione Roberto Maroni la definì «un’ottima scelta»: «abbiamo lavorato assieme quando ero ministro dell’Interno e ne ho potuto apprezzare le qualità professionali».

Simona Bordonali, che dal 2013 al 2018 è stata assessore regionale della Lombardia alla Sicurezza, ha raccontato al Post di avere avuto con Lamorgese un rapporto «buono e cordiale», e per descriverla ha usato più o meno le stesse parole di Majorino: «un interlocutore attento». Bordonali sostiene però che da prefetto Lamorgese si è limitata ad applicare decisioni imposte dall’alto, prima da Alfano e poi da Minniti, e che ora «da ministro dovrà fare delle scelte politiche che non ha mai fatto».

Negli anni da prefetto Lamorgese non ha mai commentato le decisioni prese da Salvini in materia di immigrazione, ed è probabilmente troppo presto per sapere se intende modificare i cosiddetti “decreti sicurezza” e come intende farlo (detto che il programma di governo dice in termini generali che la normativa in vigore «dovrà essere rivisitata»). Lamorgese ha dimostrato una maggiore competenza e sensibilità sul tema dell’accoglienza rispetto al suo predecessore, ma ha anche rivendicato le decine di sgomberi e le operazioni come quella effettuata alla Stazione Centrale di Milano, e più  in generale ha ammesso di interessarsi più alle paure dei cittadini, fondate o meno, che ai dati reali sulla criminalità. Tutto questo in Italia, dove una persona su due ritiene che l’immigrazione sia più un problema che un’opportunità.

Da parte sua, Majorino ricorda che Lamorgese non si occuperà soltanto di immigrazione ma anche di sicurezza pubblica e lotta alla criminalità organizzata, e auspica che il nuovo governo possa dimostrare che occuparsi di immigrazione «non significa solo contenimento, ma anche integrazione; ho fiducia per un ribaltamento d’ottica e sono convinto che il nuovo ministro dell’Interno sarà pienamente dentro a questa squadra, a cui un contributo daremo anche noi dall’Europa». Bordonali si augura invece che «tutto il lavoro fatto dal ministro Salvini venga portato avanti».