Anche i comportamenti individuali servono, per l’ambiente

E non solo perché "se lo facessimo tutti", racconta l'Atlantic

(Maja Hitij/Getty Images)
(Maja Hitij/Getty Images)

Non è vero che i comportamenti individuali non hanno nessuna conseguenza ai fini di una riduzione delle emissioni di gas serra su scala globale, per quanto singolarmente irrilevanti: secondo gli esperti producono imitazione e abitudini collettive, che possono influire significativamente sugli sforzi per costruire società ed economie più sostenibili e soprattutto favoriscono l’introduzione di leggi nazionali e internazionali. Ne ha parlato sull’Atlantic Annie Lowrey, intervistando alcuni esperti e contraddicendo una diffusa narrazione quando si parla di questioni ambientali.

Il cosiddetto “performative environmentalism”, cioè l’ambientalismo delle azioni quotidiane e individuali come scegliere alimenti sostenibili, prendere meno aerei o installare i pannelli solari, è stato spesso ridimensionato negli ultimi anni da accademici e attivisti secondo i quali l’unica azione che possa avere qualche conseguenza tangibile nella lotta al cambiamento climatico è quella dei governi e delle organizzazioni internazionali. L’idea che le responsabilità dell’impatto ambientale della società contemporanea ricadano sui consumatori e sulle loro scelte individuali, dicono in molti, è invece un’invenzione delle stesse multinazionali che rappresentano la vera minaccia al pianeta. Spostare l’attenzione sui doveri delle persone, invece che su quelli dei governi e delle grandi società, ha addirittura effetti deleteri, secondo questa tesi.

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Nella sua prima parte, questa idea è largamente condivisa e accettata nell’ambientalismo contemporaneo, e Lowrey non le mette in discussione. Il vero cambiamento, se ancora è possibile, passerà per forza attraverso l’azione dei governi. Ed è innegabile che i comportamenti individuali, da soli, non cambiano nulla in un senso o nell’altro. Anche spostandosi continuamente con un jet privato, usando l’aria condizionata in diverse case e mangiando manzo argentino ad ogni pasto, dice Lowrey, il contributo alle emissioni globali è microscopico e ininfluente. Un intero nucleo famigliare che diventi vegano, e che rinunci all’auto e ai voli, potrebbe ridurre le proprie emissioni di anidride carbonica di poche tonnellate all’anno: ne servono globalmente decine di miliardi in meno rispetto a oggi per sperare di rallentare il riscaldamento globale.

Ma arrivare a sostenere che l’ambientalismo individuale e quotidiano possa avere addirittura effetti negativi è sbagliato, secondo Lowrey, che scrive che è vero il contrario: le piccole scelte di ciascuno possono avere effetti importanti anche per quanto riguarda le grandi decisioni politiche. Quello sui comportamenti individuali è una specie di «falso dibattito» secondo Peter Kalmus, scienziato del clima alla NASA intervistato dall’Atlantic. Se l’impegno e le azioni di ciascuno servissero soltanto a ridurre il proprio contributo in termini di emissioni, allora sarebbero completamente inutili: «ma è soltanto l’1 per cento dei motivi per farlo».

Il discorso che fa Lowrey è più complesso e sfumato di quello per cui le piccole abitudini ambientaliste sarebbero influenti “se lo facessero tutti”. Per come funzionano le persone, infatti, ci sono comportamenti che diventano collettivi senza una ragione logica, ma soltanto perché iniziano a diffondersi: è il motivo per cui in Occidente i SUV sono diventati popolarissimi, nonostante le famiglie si siano ristrette e sempre meno persone abbiano bisogno di guidare sullo sterrato. È successo perché hanno cominciato a essere associati a uno status sociale ambito.

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Se questo è un esempio di comportamento collettivo che ha danneggiato l’ambiente, ce ne sono anche di virtuosi: secondo uno studio californiano, per esempio, una singola casa che installa i pannelli solari aumenta dello 0,78 per cento la probabilità che lo faccia qualcun altro nella stessa area. Un esempio di una tendenza simile è stata la maggiore consapevolezza sull’impatto ambientale dei voli aerei, e la cosiddetta flight shame, lo stigma sociale associato ai voli low cost e sostituibili dai viaggi in treno. Sebbene sia un fenomeno di nicchia, secondo uno studio che ha intervistato 6mila persone tra Stati Uniti, Germania, Francia e Regno Unito, una persona su cinque dice di aver ridotto il numero di aerei presi per ragioni ambientali.

L’azione politica dei governi rimane molto più importante e influente, ma secondo Brett Jenks, presidente della ong ambientalista Rare, un impegno deciso da parte del 5 per cento degli americani basterebbe a ridurre di 600 milioni di tonnellate all’anno le emissioni di anidride carbonica: «sarebbe tra gli eventi più importanti nella storia dell’uomo, in termini di emissioni di gas serra».

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Non finisce qui: l’adozione diffusa di pratiche e comportamenti individuali sostenibili renderebbe più facile per i governi introdurre leggi più stringenti e ambiziose. In generale, dice Lowrey, le leggi funzionano meglio quando rispecchiano quello che la gente fa già o perlomeno sta iniziando a fare. Se più gente avesse i pannelli solari o un’auto elettrica, sarebbe più facile introdurre leggi che li rendano obbligatori o che li incentivino. Le norme per ridurre l’uso delle bottiglie in plastica monouso in certi contesti saranno più facili se, come sembra stia succedendo da un po’ di tempo a questa parte, sempre più persone si abitueranno a usare una borraccia. Rendere queste abitudini normali e quotidiane, poi, ne ridurrà anche la connotazione politica, assente in certi paesi ma molto forte in altri, come negli Stati Uniti, dove infatti è un tema divisivo.

Chi sostiene che non si debba personalizzare l’ambientalismo, e che non ci si debba distrarre dall’obiettivo di ottenere grandi cambiamenti politici, ipotizza spesso che gli sforzi individuali dei cittadini possano funzionare da alibi per i governi a non agire. Ci sono però degli esempi che lo smentiscono, per esempio le leggi che regolano la produzione di pellicce, introdotte quando ormai si era diffusa una sensibilità e un’ostilità generale verso la pratica.

Oppure c’è il rischio che i comportamenti individuali siano autoassolutori, e riguardino più la coscienza di ciascuno che il pianeta. Usare una borsa di stoffa e spostarsi in bici per la città fa stare bene con se stesso chi ha a cuore l’ambiente, e questo potrebbe portarlo a non impegnarsi in prima persona nell’attivismo che cerca di ottenere i cambiamenti più significativi. Obiezioni simili sono state sostenute in vari articoli, alcuni dei quali hanno criticato in particolare l’idea di usare un nuovo tipo di consumismo, quello per i prodotti sostenibili, per uscire da una crisi che è stata causata tra le altre cose dal consumismo.

Secondo Lowrey questi sono argomenti in parte condivisibili, ma presentano a loro volta dei rischi escludendo totalmente la dimensione individuale dall’impegno per salvaguardare il pianeta. Criticare l’ambientalismo individuale, secondo Lowrey, è legittimo quando effettivamente «oscura la responsabilità delle grandi società e le soluzioni sistemiche al problema». Ma spersonalizzare il cambiamento climatico è a sua volta un errore, dice Lowrey, perché non considera come i cambiamenti sociali si costruiscano su un insieme di pratiche individuali, che partono dall’impegno di ciascuno e si sommano portando a tendenze collettive.