• Libri
  • Domenica 19 luglio 2020

Paolo Nori ha scritto un giallo

A modo suo: il protagonista vive a Bologna e scrive su un giornale sportivo che esce solo quando la Juventus perde

(Natalie/flickr)
(Natalie/flickr)

Paolo Nori, scrittore di grande attenzione all’uso creativo della lingua ed esperto in particolare di letteratura russa, ha pubblicato molti libri, tra saggi e romanzi e ibridi tra i due: ma il suo nuovo libro Che dispiacere è il suo primo giallo e il primo romanzo scritto in terza persona.

Il protagonista del libro è uno scrittore e traduttore dal russo (come l’autore). Ha da poco perso la moglie, vive con la figlia a cui vuole molto bene. Ha una storia «fatta, prevalentemente, di appuntamenti mancati» con una barista laureata in filosofia. Dirige sotto pseudonimo un giornale che esce puntualmente e solo in occasione delle sconfitte della Juventus: si chiama “Che dispiacere” e dà il titolo al libro. In questo contesto viene coinvolto in una indagine per omicidio.
L’elemento affascinante della narrazione è come sempre il tono ironico e il candido senso dell’umorismo che Nori sa far funzionare, usandolo per raccontare un po’ di Bologna attraverso la descrizione dei personaggi che popolano i suoi bar. Questo è l’inizio del primo capitolo.

***

1.1 Certi giorni
Il 30 gennaio del 2019, verso le cinque del pomeriggio, Bernardo Barigazzi stava per uscire di casa.
Sua moglie, che si chiamava Francesca, ma che lui chiamava Togliatti, per il suo carattere un po’ duro, e per la convinzione, che lei aveva, di essere il migliore, era morta da tre mesi: il 5 novembre del 2018 era finita sotto una macchina davanti a casa, in via Irma Bandiera. L’autista della macchina non si era fermato. Era morta dissanguata, alle undici di notte di un normalissimo giorno feriale. Lunedì. Aveva trentanove anni.
Barigazzi, di mestiere, avrebbe dovuto far lo scrittore, e tutti pensavano fosse uno scrittore molto prolifico: pubblicava un libro all’anno, più o meno, e uno lo traduceva, più o meno. Dal russo. Aveva studiato russo.
A lui, però, sembrava, in generale, di lavorare pochissimo e, in particolare, di scrivere pochissimo, e visto che ormai erano sei mesi che aveva pubblicato il suo ultimo libro, e nel frattempo non ne aveva scritto un altro, gli sembrava di essere un imbroglione, uno che fa finta, di essere uno scrittore, ma in realtà non è niente.
Gli era mancata molto, la scrittura romanzesca, in quei mesi.
Quando scriveva un romanzo, gli succedeva quasi sempre che arrivava un momento che gli sembrava di essere Fabrice del Dongo, il protagonista della Certosa di Parma, di Stendhal, che, dopo aver partecipato, quando era giovane e ingenuo, alla battaglia di Waterloo (c’era andato per aiutare Napoleone), si chiedeva continuamente: ‘Ma davvero son stato a Waterloo? Ma dai. Ma figurati se son stato a Waterloo’.
Ecco: quando scriveva un romanzo, a Barigazzi succedeva di chiedersi: ‘Ma davvero sto scrivendo un romanzo? Ma dai. Ma figurati se sto scrivendo un romanzo’.
Invece, in quegli ultimi mesi, gli succedeva spesso di pensare: ‘Ma davvero Togliatti è morta? Ma dai’.
Gli era mancata moltissimo, Togliatti, in quei mesi.
Gli erano mancate le discussioni che facevano, che succedeva che quando parlava con lei, che non eran d’accordo su qualcosa, che avevan ciascuno una propria teoria, per esempio sull’educazione dei bambini, lei diceva che la teoria che aveva lei era una teoria che ce l’avevano tutti, al mondo, la teoria che aveva lui, invece, era una coglionata.
Lui rispondeva che, a ragionare così, il mondo sarebbe stato ancora dominato dai terrapiattisti, a accettare le teorie che al mondo ce le avevano tutti.
Con questo di solito la conversazione si interrompeva e stavano zitti, tutti e due lì, nello spazio minuscolo del cucinino, e passavano quattro o cinque minuti a guardare nel piatto, se stavan mangiando, o nel fondo delle loro tazzine, se prendevano un tè deteinato (lei) o un caffè (lui). Dopo lei diceva, di solito: «Parli così bene, quando
stai zitto».
«Te invece, anche quando stai zitta, io non son mica d’accordo, con quei silenzi lì così competitivi» diceva lui.
Stavano bene, insieme.

1.2 Aloe vera
A poche centinaia di metri da casa di Barigazzi, al Bar Bulgarelli, vicino alla rotonda Bernardini, un signore un po’ grosso, sui settant’anni, con le orecchie grandi e pelose che hanno certi uomini anziani che non hanno nessuna confidenza con il concetto della depilazione, e coi capelli bianchi e un montgomery blu che aspirava all’eleganza senza arrivarci del tutto, era appoggiato col gomito sinistro al bancone del Bar Bulgarelli; vicino al gomito c’era una tazzina vuota di caffè decaffeinato, e il signore parlava agitando la mano destra che era una mano di una grandezza che sembrava un badile.
Non si capiva, a chi si rivolgesse: se fosse stato vestito diversamente, e se invece che al Bar Bulgarelli si fosse trovato in un ambiente più austero, si sarebbe potuto pensare che fosse un avvocato che perorava la causa del proprio cliente con la finta passione che anni e anni di pratica della sua professione gli avrebbero insegnato a mettere in scena, ma l’abbigliamento, l’ambiente e l’argomento della sua arringa erano in contrasto con la foga del discorso e con lo sbadilare che l’accompagnava.
«L’altro giorno» diceva quel signore, che si chiamava, bisogna dire, Gianni Lamborghini, «ero in via Indipendenza per un affare, son passato davanti a un negozio, una profumeria, e ho visto che c’era scritto, in grosso, ‘Aloe vera’».
Qui Lamborghini aveva fatto una pausa, come per fare assorbire al suo uditorio questa prima parte del discorso, poi aveva ripreso.
«Che è una cosa, non c’è niente di straordinario, è normale, vederla scritta e sentirla dire, talmente normale che se uno vede scritto ‘Aloe’, da qualche parte, nella sua testa, gli viene da aggiungere: ‘Vera’. Se c’è un’aloe, mi viene da dire, è vera» aveva detto Lamborghini.
«Che però, se quella lì è vera» aveva detto poi dopo, «se vantano la verità di quell’aloe, vuol dire che ce n’è anche di finta, di aloe. Se no basterebbe dire ‘Aloe’. Ma non dicono ‘Aloe’, dicono ‘Aloe vera’. Allora vuol dire che ce n’è anche di finta. Se no bastava dire ‘Aloe’».
Altra pausa significativa.
«E dopo» aveva ripreso, «son tornato a casa, mi son messo a sentire la radio, c’era uno che diceva che il suo governo era il governo del cambiamento, che è un po’ uguale, no? Se c’è un governo, è del cambiamento, ci avete pensato?» aveva detto Lamborghini rivolto al suo uditorio che era composto da tre persone, che stavan tutte lì al bancone e era un uditorio particolare perché nessuna di loro lo stava ascoltando.
Due erano due agenti immobiliari, vestiti da agenti immobiliari, che stavano prendendo un caffè senza dir niente forse perché eran degli anni che, tra di loro, parlavano della crisi immobiliare e non ne potevan più, di parlare della crisi immobiliare, preferivano prendere un caffè in silenzio e pensarci soltanto, alla crisi immobiliare, che pensare alla crisi immobiliare senza parlarne la faceva sembrare un po’ meno critica, forse.
L’altra era la barista, che si chiamava Marzia, e aveva una canottiera nera, di quelle da barista, e pensava che aveva ancora un’ora di turno e che poi forse quella sera sarebbe uscita con uno ma che quello lì non l’aveva ancora chiamata.
‘Ma quella testa di cazzo, perché non mi ha ancora chiamata?’ si chiedeva Marzia nella sua testa invece di ascoltar Lamborghini.
«Eppure» aveva continuato Lamborghini con un’ammirevole mancanza di interesse per il disinteresse che lo circondava, «sarebbe possibile anche sentire qualcuno che si proponesse di fare un governo che il suo programma fosse lasciare le cose esattamente così come sono. Noi, se ci votate, non faremo niente. O qualcosa del genere. Secondo me ci arriviamo» aveva detto Lamborghini, e si era guardato intorno con un’aria come per dire che aveva finito e che era soddisfatto della sua magistrale arringa che aveva distrutto le congetture della pubblica accusa.
In quel momento, da dietro di lui, era arrivata una voce che diceva: «Aloe Vera? Cos’è, rumena?»
Lamborghini si era voltato, aveva visto un signore con un naso più rosso del suo, delle orecchie più grandi e, se possibile, più pelose delle sue, che era vestito con un cappotto un po’ meno alla moda, del suo, che aveva, probabilmente, qualche anno più di lui e che, seduto a un tavolino con spiegato davanti un quotidiano sportivo, aveva piegato la testa verso di lui e lo guardava dal basso all’alto con una smorfia che voleva significare che non aveva capito e che gli segnava, sul viso, un gran numero di rughe sul nero dell’abbronzatura.
Era un signore che si chiamava Luigi Guerra e aveva fatto, per cinquantasei anni, il muratore e era, nella faccia, uno degli uomini più abbronzati di Bologna.
«Cos’è» aveva detto Guerra, «una badante?»
Lamborghini si era voltato verso Marzia, la barista, e le aveva detto: «Quanto pago?»
«Un euro e venti» aveva risposto Marzia, e Lamborghini aveva pagato in un silenzio imbarazzato che delle volte succede, che l’imbarazzo produca un silenzio memorabile dentro il quale muoversi diventa percettibilmente più complicato.
E dentro quel silenzio, in quella bolla di imbarazzo e di assenza di suono, di quelle che rallentano il tempo, Lamborghini aveva fatto lo sforzo tremendo di raccogliere con gli enormi indice pollice e medio della sua enorme mano destra la piccola moneta da venti centesimi e le due minuscole monete da cinque centesimi che Marzia gli aveva dato di resto, di ruotare il suo corpaccione settantaduenne ostentando un’indifferenza che non aveva niente a che fare col suo reale stato d’animo, di uscire dal bar come se niente fosse e, automaticamente, si era messo a pensare: ‘Ma perché i frighi del bar non fanno il
rumore che fa il mio, di frigo?’
Gli si era rotto il frigorifero, e suo figlio Guglielmo, da Amburgo, dove abitava, gliene aveva ordinato uno su internet, e il frigorifero nuovo ci aveva messo quindici giorni, a arrivare, era arrivato la sera prima, e dalla sera prima, nella cucina di Lamborghini, ogni tanto c’era rumore di frigo.
E lui, che si era dimenticato com’era, si spaventava, quando partiva.
E così, accorgendosi dell’assenza, nel bar, del rumore di frigo, e chiedendosi il perché di questa assenza, aveva aperto la porta cercando di fare meno rumore possibile, era uscito, aveva richiuso la porta cercando di fare meno rumore possibile, si era trovato sul marciapiede e aveva sospirato contento di essere uscito da quell’atmosfera rarefatta e imbarazzata del Bar Bulgarelli dove eran rimasti due agenti immobiliari che pensavano alla crisi immobiliare, una barista che si chiedeva come mai il suo amico non la chiamava, un ex muratore campione di abbronzatura che aspettava invano una risposta alla propria domanda: «Cos’è, una badante?»
E Lamborghini, appena fuori, aveva fatto una mossa come per voltarsi a sinistra, verso casa, ma poi aveva visto un’insegna rosso blu, ‘Bar Attila’, c’era scritto, e aveva preso, col suo corpaccione, verso destra, si era incamminato, aveva fatto i dodici metri che separavano il Bar Bulgarelli dal Bar Attila, era entrato, aveva ordinato un caffè decaffeinato, aveva appoggiato il gomito destro al bancone zincato del Bar Attila, aveva zuccherato il caffè, aveva mescolato a lungo, aveva buttato giù il caffè tutto d’un fiato, aveva fatto una smorfia, aveva appoggiato la tazzina e, agitando la mano sinistra, che era anche quella una mano di una grandezza che sembrava un badile, aveva detto: «L’altro giorno… ero in via Indipendenza per un affare, son passato davanti a un negozio, una profumeria, e ho visto che c’era scritto, in grosso, ‘Aloe vera’».

1.3 Sostanzialmente
Quando Marzia aveva aperto la porta di casa, poco dopo le sei, nel soggiorno, che era anche un ingresso, con angolo cottura, cioè era ingresso, soggiorno e cucina, cioè tutto, a parte bagno e camere da letto, quando Marzia aveva aperto la porta di casa c’era la sua coinquilina che, scalza, sul divano, con una mano accarezzava un gatto nero con gli occhi giallo verdi, con l’altra teneva un cucchiaino che di tanto in tanto immergeva in un barattolo di yogurt bianco incastrato tra le due gambe incrociate, e intanto guardava il telegiornale alla televisione.
Al telegiornale, in televisione, c’era il sindaco (donna) di una grande città italiana che stava parlando.
Intanto che Marzia aveva appoggiato la borsa e si era seduta, il sindaco (donna) aveva ripetuto tre volte la parola ‘sostanzialmente’.
Marzia aveva alzato la testa in un gesto che le era proprio, come se fosse all’erta, e aveva detto: «La mia analista, quando avevo un’analista, diceva sempre ‘sostanzialmente’».
«Eh. E allora?»
«Eh, allora… Allora io, sostanzialmente, non capivo quasi niente, di quello che diceva».
«Ci sei andata molto?»
«Tre anni».
«Be’, dai».
«Sì. Sostanzialmente, essere riuscita a decidere di non andarci più è stato un bel progresso. Ha funzionato, alla fine».
«Complimenti» aveva detto la coinquilina di Marzia.
«Grazie» aveva risposto lei.
La coinquilina di Marzia, che si chiamava Stefania, aveva i capelli neri, più corti che lunghi, era vestita completamente di nero e faceva l’infermiera, aveva silenziato la televisione e aveva chiesto: «Com’è andata oggi?»
Marzia aveva sbuffato, aveva detto: «Cominciata male, finita peggio».
«Mi racconti?»
Marzia, che aveva i capelli castani, più corti che lunghi anche lei, e il labbro superiore all’insù, come in contraddizione con la legge di gravità, si era tolta il chiodo, l’aveva appoggiato sullo schienale della sedia e aveva detto: «Guarda, appena attaccato, a mezzogiorno in punto, c’era un cliente che parlava fortissimo al telefono, diceva che lui aveva sempre lavorato in Grandi realtà, ma grandi eh?»
«Eh» aveva detto Stefania, «magari pensava che quello che era al telefono con lui pensasse che lui aveva lavorato in grandi realtà, ma piccole, eh? Invece no. Erano Grandi ma grandi».
«Esatto. E poi ha detto: ‘Sto da Dio, ma da Dio, eh?’»
«Eh» aveva detto Stefania, «non Da Dio, ma malissimo. No. Da Dio, ma da Dio».
«Esatto. E dopo ha detto: ‘Mi danno una barca di soldi, ma una barca, eh?’»
«Eh» aveva detto Stefania, «magari pensava che l’altro pensasse che gli davano una barca di soldi, ma pochissimi».
«Esatto».
«Un po’ come a noi».
«Precisamente».
«E alla fine?»
«Alla fine è venuto il peloso a fare lo spiritoso».
«No».
«Sì».
«Gli hai dato confidenza?»
«Non l’ho neanche cagato».
«Brava. E lui?»
«Lui non si è visto. Neanche un messaggio neanche per sbaglio. Sai quei messaggi che ti partono senza volerlo, perché hai il telefono dentro la tasca?»
«Eh».
«Neanche quello».
«Sarà stato impegnato».
«Sì, lo so io, in cosa è impegnato» aveva detto Marzia aprendo la porta del balcone per fare uscire il gatto, che sul balcone aveva la cassetta dove faceva le cose che fanno i gatti nella cassetta.
«In cosa?» aveva chiesto Stefania.
Marzia si era fermata, aveva guardato Stefania. «No» aveva detto. «Non lo so. Non so mica niente, io, di quello lì».

1.4 Da dietro
Era sempre il 30 gennaio del 2019, erano le sette e quaranta di sera, Barigazzi era ancora a Bologna, ma in centro, in un’osteria che dà su piazza Galvani.
Quando, qualche anno prima, gli avevano chiesto di scrivere dei pezzi per una guida turistica della città di Bologna, lui, che era di Parma, aveva scritto che, quando abitava a Parma, lui non sapeva che, in piazza Maggiore, su quella specie di grande zoccolo che c’è in mezzo, che a Bologna chiamano il crescentone, lì, i bolognesi, la domenica, portano i bambini a correre dietro ai piccioni, quelli a cui piace correre dietro ai piccioni, e gli altri, quelli a cui non piace correre dietro ai piccioni, portano i bambini a vedere chi ha la testa più grande.
Da questa postazione, poi, dal crescentone, i bolognesi la conoscono bene e non la guardano più, ma i non bolognesi che si trovano sul crescentone, in piazza Maggiore, da qui si trovano nel punto ideale per guardare la celebre basilica di San Petronio, uno degli incanti della quale consiste nel fatto che, evidentemente, non è finita.
Son così belle, aveva scritto Barigazzi, le cose che non sono finite: un libro, da finire, un film, da finire, una cattedrale, da finire.
E gli era venuta in mente la strofa di una canzone di un cantante italiano che dice: ‘Io voglio aspettare che la fame cresca e che magari non passi mai’; be’, a guardare la facciata di San Petronio, così unica, nella sua incompiutezza, la fame non vi passa mai, aveva scritto Barigazzi, e se poi volete avere ancora più fame, aveva scritto, io vi consiglio di fare tutta San Petronio per il lungo, di passare davanti all’Archiginnasio, che è la sede dell’Università di Bologna, che a Bologna dicono che sia la più antica università del mondo (a Parigi dicono che è quella di Parigi), di arrivare in piazza Galvani e da lì di guardare il retro, di San Petronio, che dal retro, se fosse possibile, è ancor più evidente, che hanno interrotto i lavori a metà. E lasciato in sospeso così, adesso i gusti son gusti, aveva scritto Barigazzi, ma, per me, il retro di San Petronio è il più bel retro di cattedrale che ho mai visto in vita mia, aveva scritto.
E adesso, seduto nella sala dell’Osteria della Trottola che dava sulla piazza che dava sul retro di San Petronio, Barigazzi aspettava uno che si chiamava Enrico Mancino e che non sapeva bene come definire: avrebbe potuto dire che era un suo amico, se non fosse che lui non ne aveva, di amici, a parte uno sardo con la barba con il quale non si vedevano mai.
Invece lui, Mancino, che non era sardo, era di Ascoli Piceno, e non aveva la barba, negli ultimi tre mesi, dopo la morte di Togliatti, Mancino era la persona con cui Barigazzi era uscito più spesso, quasi sempre in quell’Osteria della Trottola con una sala che dava sul retro di San Petronio.
Che adesso, c’è da dire, da qualche anno non si vedeva, il retro di San Petronio, era in restauro, ma a Barigazzi bastava sapere che dietro quegli enormi pannelli di truciolato c’era il più bel retro di cattedrale che avesse mai visto nella sua vita.
Solo che adesso, Mancino era in ritardo, di dieci minuti, e Barigazzi stava pensando: ‘Che due maroni. Chi me l’ha fatto fare di accettare l’invito a cena di Mancino?’
Avrebbe potuto piuttosto cenare in fretta con sua figlia e poi vedere, da solo, la partita Atalanta-Juventus, che sarebbe cominciata alle venti e quarantacinque, e sperare che vincesse la Juventus, invece doveva cenare con Enrico Mancino che lui sospettava volesse parlare del proprio romanzo, appena uscito, che si intitolava Son contento di morire, ma mi dispiace e era un romanzo che Barigazzi non aveva letto e che, la settimana dopo, avrebbe perfino dovuto presentare.
‘Che due maroni’ aveva pensato Barigazzi ricordandosi della presentazione.
E erano già le sette e quarantadue e Mancino non accennava a arrivare, pensava Barigazzi (come se si potesse accennare a arrivare).
Era così arrabbiato, Barigazzi.
E si guardava intorno e, vedendo i camerieri e i pochi clienti che continuavano a comportarsi come se niente fosse, si chiedeva: ‘Ma possibile che non si accorgano che
sono arrabbiato?’
Gli piaceva, a Barigazzi, essere arrabbiato.
Era una delle cose che gli piaceva.
Come mandare una cartolina, o scrivere, nel senso di tracciare dei segni, o comprare un quaderno nuovo.
Tutte le volte che comprava un quaderno nuovo, gli sembrava di vedere, con la coda dell’occhio, le cose bellissime che ci avrebbe scritto.
O come essere stanco, sentire la stanchezza in mezzo alle spalle. O come le mele. O come leggere. O come cantare (da solo) dopo aver steso il bucato. Da casalingo.
O come la faccia dei musicisti quando suonano. Gli sarebbe piaciuto avere sempre quella faccia lì, la faccia dei musicisti quando suonano.
Invece no.
Delle volte aveva la faccia di uno arrabbiato al quale piaceva, essere arrabbiato.