Ustica, 40 anni dopo

Quarant'anni dopo il disastro aereo che causò la morte di 81 persone, giudici e magistrati hanno stabilito che il DC-9 fu abbattuto in uno scontro aereo: ma tra chi e perché rimane ancora un mistero

(GIORGIO BENVENUTI / DBA)
(GIORGIO BENVENUTI / DBA)

Alle ore 20 e 59 del 27 giugno 1980, un aereo DC-9 della compagnia ITAVIA in volo da Bologna a Palermo con 81 persone a bordo precipitò in mare non lontano dall’isola di Ustica, a nord di Palermo. Dopo decenni di indagini e di processi, tra reticenze e depistaggi, la tesi più accreditata è che l’aereo sia stato abbattuto per errore durante una battaglia aerea tra aerei libici e della NATO. Ma a 40 anni dalla morte degli 81 passeggeri e membri dell’equipaggio del volo ITAVIA, le dinamiche dell’incidente e i suoi responsabili rimangono ancora in gran parte sconosciuti.

Tra le poche cose che sappiamo con certezza c’è la storia del volo fino al momento del suo abbattimento. Sappiamo per esempio che l’aereo decollò da Bologna con quasi due ore di ritardo rispetto all’orario previsto di partenza. Sappiamo che, poco meno di un’ora dopo, la scatola nera dell’aereo registrò l’ultima conversazione avvenuta nella cabina di pilotaggio. Dopo aver ripulito la traccia audio, si scoprì che la registrazione terminava con le parole: «Guarda, cos’è?», pronunciate alle 20 e 59. Poco dopo l’aeroporto di Palermo contattò l’aereo per coordinare la discesa, ma non ottenne risposta. Iniziarono subito le operazioni di ricerca e nella notte i primi rottami dell’aereo vennero trovati a poco più di cento chilometri dall’isola di Ustica.

Le prime indagini sul disastro furono svolte parallelamente dalla magistratura e da una commissione ministeriale. In quel momento non c’era molto su cui gli investigatori potevano basare il loro lavoro. L’aereo era precipitato in un tratto in cui il mar Tirreno scende fino a una profondità di 3 mila metri, e soltanto una manciata di rottami erano stati recuperati. Nel 1981 la commissione ministeriale ipotizzò che l’aereo fosse caduto per un guasto dovuto alla scarsa manutenzione. L’ipotesi, che divenne famosa come l’ipotesi del “cedimento strutturale”, venne presto messa in ridicolo.

Fin da subito, infatti, erano circolate ipotesi ben più sinistre sulle cause della strage. Secondo una delle più accreditate, l’aereo era stato abbattuto da una bomba sistemata a bordo. All’epoca colpire aerei di linea era una strategia usata relativamente di frequente dai gruppi terroristici: nel decennio precedente ben 11 aerei erano stati attaccati in questo modo. Nel 1982 questa ipotesi acquistò ulteriore solidità quando una perizia scoprì tracce di esplosivo su alcuni dei pochi reperti che si era riusciti a recuperare.

C’era un forte indizio, però, contro l’ipotesi della bomba. Il DC-9 era partito con due ore di ritardo e quindi sembrava improbabile che fosse stato abbattuto da una bomba a tempo, che se collocata a bordo prima della partenza sarebbe dovuta esplodere mentre l’aereo era ancora sulla pista in attesa dell’autorizzazione a partire. Un terrorista suicida poteva aver azionato la bomba a bordo dell’aereo, ma se gli attentati alle linee aeree erano frequenti all’epoca, non lo erano altrettanto gli attacchi suicidi.

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Nel frattempo però si moltiplicavano i sospetti intorno a un’altra ipotesi: quella che il DC-9 dell’ITAVIA fosse stato abbattuto per errore nel corso di uno scontro aereo tra aerei della NATO, americani o francesi, e aerei libici (la Libia all’epoca aveva relazioni particolarmente tese con gli Stati Uniti e tra i due paesi avvennero diversi incidenti armati in quegli anni).

Tra gli elementi a favore della tesi della “battaglia aerea” ci fu, un mese dopo l’incidente di Ustica, il ritrovamento sulle montagne della Calabria di un aereo da combattimento libico abbattuto. Anche se nessuna forza armata ha mai ammesso di aver colpito l’aereo libico, il ritrovamento è stato considerato la prova che nell’estate del 1980 i cieli sopra il Mediterraneo centrale erano stati teatro di uno o più scontri aerei.

Un altro episodio che fece grande impressione avvenne otto anni dopo, quando un uomo che sosteneva di essere un operatore radar in servizio la notte del disastro telefonò alla trasmissione Telefono Giallo condotta da Corrado Augias. L’uomo disse che il DC-9 era stato abbattuto nel corso di una battaglia aerea e che i comandanti dell’aviazione avevano ordinato di insabbiare la storia.

Per molti, poi, la prova definitiva sull’origine della strage fu fornita da Francesco Cossiga, che all’epoca dell’incidente era presidente del Consiglio e poi fu eletto presidente della Repubblica. Cossiga – che non aveva fornito particolari contributi alla ricostruzione della strage durante le indagini – disse nel 2007 che all’epoca i servizi segreti lo informarono che ad abbattere il DC-9 era stato un missile sparato da un aereo francese partito dalla portaerei Clemenceau. L’aereo dell’ITAVIA sarebbe stato scambiato dai francesi per quello che stava trasportando il leader libico Muammar Gheddafi.

Le dichiarazioni di Cossiga furono ritenute sufficientemente affidabili e importanti (Cossiga d’altra parte era capo del governo al momento dell’incidente), tanto da spingere la procura di Roma a riaprire le indagini. Altri invece ritennero poco affidabili le sue dichiarazioni, che aveva spesso avuto ruoli ambigui e che anche in altre occasioni aveva compiuto ricostruzioni controverse di eventi storici a cui aveva partecipato. Nel corso delle indagini, le autorità francesi fornirono documenti in base ai quali risultava che il 27 giugno la portaerei Clemenceau si trovava nel porto di Tolone, ben lontano quindi dalla Sicilia e dal mar Tirreno meridionale.

Commissioni parlamentari, giornalisti e magistrati hanno provato per anni a mettere insieme i pezzi di questo puzzle, aiutati – a partire dal 1987 – dal recupero di gran parte del relitto del DC-9 ITAVIA, che oggi si trova esposto in un museo a Bologna. Le indagini e i processi dei magistrati si sono sviluppati in tre tronconi. Il primo è costituito dai processi penali per individuare i responsabili e che, fino a oggi, non hanno prodotto condanne (una nuova indagine penale però è in corso da alcuni anni da parte della procura di Roma). Il secondo è costituito dal processo sui depistaggi che sarebbero stati messi in atto da politici e militari per nascondere cosa sia realmente accaduto. Questo processo si è concluso nel 2007 con l’assoluzione dei due generali ancora imputati.

Il terzo filone è quello che ha portato i risultati maggiori ed è costituito dai processi in sede civile, intentati dai parenti delle vittime per ottenere un risarcimento. I giudici civili hanno stabilito che il DC-9 fu abbattuto per errore nel corso di uno scontro aereo. Il tribunale, confermato poi dalla Corte di Cassazione, condannò al risarcimento delle vittime i ministeri della Difesa e dei Trasporti, poiché non avevano vigilato sui cieli italiani per evitare il disastro. I ministeri sono anche stati condannati per aver ostacolato le indagini.

Accanto a questi atti e indagini ufficiali, la strage di Ustica ha prodotto centinaia di altre ricostruzioni alternative, indagini indipendenti e inchieste giornalistiche. Decine e decine di ipotesi sono state fatte nel corso degli anni sulla nazionalità degli aerei che si sarebbero scontrati, le ragioni della battaglia e il coinvolgimento di importanti personalità nei depistaggi. Come molti altri episodi del nostro recente passato, la strage di Ustica è diventata così un serbatoio infinito per la creazione di nuove teorie del complotto, spesso sostenute da “supertestimoni” che decidono di parlare per la prima volta decenni dopo i fatti.

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Tra tutti i misteri degli anni Settanta e Ottanta, quello di Ustica rimane ancora oggi uno di quelli che merita di più questo appellativo. Come hanno accertato i giudici dei processi civili e come ha confermato la Cassazione, nel caso di Ustica si verificarono effettivamente delle cospirazioni per nascondere la verità e ci furono oscuri responsabili diretti e indiretti dell’abbattimento del DC-9. In 40 anni però, sui loro nomi e sulle loro nazionalità, almeno ufficialmente, di progressi se ne sono fatti pochi.