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  • Mercoledì 17 giugno 2020

La storia di Sarah Hegazi

Un'attivista lesbica egiziana si è uccisa, dopo essere stata arrestata e torturata per aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto

Domenica 14 giugno Sarah Hegazi, un’attivista egiziana lesbica per i diritti delle persone LGBTQI e delle donne, si è uccisa a Toronto, in Canada, dove aveva ottenuto asilo all’inizio del 2018. L’anno prima era stata arrestata al Cairo per aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto. In carcere aveva subito abusi e violenze. Nel suo ultimo messaggio si è rivolta ai suoi fratelli, alle sue sorelle e agli amici dicendo di aver provato a sopravvivere, ma che il dolore era diventato per lei «troppo pesante»: «A te, mondo, sei stato molto ingiusto con me, ma ti perdono».

In Egitto le difficoltà per le persone LGBTQI sono enormi e dipendono soprattutto dalla mancanza di sicurezza personale e di accettazione sociale. La legge egiziana non menziona esplicitamente l’omosessualità, ma per perseguire le persone LGBTQI si fa regolarmente ricorso a reati come «offesa alla morale e alla sensibilità pubblica», alla «violazione degli insegnamenti religiosi» o alla «propaganda di idee e moralità depravate». Gli investigatori della polizia, sotto copertura, frequentano le app di incontri per individuare e denunciare le persone omosessuali, che vengono arrestate anche nei bar o per la strada solo in base al loro aspetto. Questo clima di stigmatizzazione e di discriminazione costringe molto spesso queste persone all’invisibilità.

La storia pubblica di Sarah Hegazi è iniziata nel settembre del 2017, quando aveva 28 anni, durante un festival di musica al Cairo. Quando era salito sul palco il cantante dichiaratamente gay di un gruppo pop libanese, Mashrou’ Leila, alcune persone tra la folla avevano alzato delle bandiere arcobaleno. Tra loro anche Sarah Hegazi, che era stata fotografata da un amico. In una successiva intervista a Deutsche Welle, Hegazi aveva raccontato che quel momento era stato per lei di grande gioia e liberazione, perché «mi stavo dichiarando in una società che odia tutto ciò che è diverso dalla norma».

Quel concerto e la foto di lei che sventola la bandiera arcobaleno erano diventati un caso, sui social e in televisione. Hegazi era stata sommersa di commenti pieni di odio e aveva ricevuto diverse minacce di morte, ha raccontato Mostafa Fouad, suo avvocato e amico. Pochi giorni dopo Hegazi era stata prelevata da casa sua e portata in un centro di detenzione gestito dall’Agenzia per la Sicurezza nazionale, il servizio segreto interno egiziano. Quello che le è accaduto è stato raccontato da lei al giornale indipendente egiziano Mada Masr nel settembre del 2018:

«Mentre mi arrestavano, in casa mia, davanti alla mia famiglia, un agente mi ha chiesto cosa pensassi della religione, perché non indossavo il velo e se fossi vergine o no. L’agente mi ha bendato nell’auto che mi ha portato in un posto che non dovevo riconoscere. Sono stata portata giù da una scala, senza sapere dove sarei arrivata. (…) Ho avvertito un odore nauseabondo, e ho sentito gemiti di dolore. Mi hanno fatta sedere su una sedia, con le mani legate e un pezzo di stoffa in bocca per motivi che non riuscivo a capire. Non vedevo nessuno, nessuno mi rivolgeva la parola. Un attimo dopo, il mio corpo si è contorto dalle convulsioni e ho perso conoscenza. Non so per quanto tempo sono rimasta esanime. Era una scossa elettrica. Sono stata torturata con l’elettricità. Hanno minacciato di fare del male a mia madre, se ne avessi parlato a qualcuno».

Dopo Hegazi era stata portata in una stazione di polizia, dove era stata accusata di “incitamento alla devianza e alla dissolutezza sessuale”. Nella sua cella altre donne detenute, incoraggiate dalla polizia, l’avevano aggredita «sessualmente, fisicamente e verbalmente», ha raccontato lei. Le torture erano proseguite nella prigione di Qanatir, a nord del Cairo:

«Sono stata tenuta in isolamento per molti giorni prima di essere trasferita in una cella con altre due donne, alle quali mi è stato proibito di rivolgere la parola. Per tutto il tempo mi è stato vietato di uscire alla luce del sole. Ho perso la capacità di stabilire un contatto visivo diretto con le persone».

Hegazi ha anche raccontato il suo interrogatorio, che ha definito «una dimostrazione di ignoranza»:

«L’uomo che mi ha interrogata mi ha chiesto di fornire le prove secondo le quali l’Organizzazione mondiale della sanità non considera l’omosessualità una malattia. Il mio avvocato Mohamed Fouad ha effettivamente contattato l’OMS e ha presentato un promemoria in cui si afferma che l’omosessualità non è una malattia. La mia avvocata Hoda Nasrallah ha contattato anche le Nazioni Unite, che hanno a loro volta diffuso una dichiarazione in cui si dice che il rispetto dell’orientamento sessuale è un diritto umano.

(…) Le domande di chi mi interrogava erano ingenue: mi è stato chiesto se il comunismo equivalesse all’omosessualità. Mi è stato chiesto, con sarcasmo, cosa impediva agli omosessuali di fare sesso con i bambini e gli animali. Chi me lo ha chiesto non sa che fare sesso con i bambini è un reato, e che fare sesso con gli animali è un crimine. Non sorprende che il suo pensiero fosse così limitato. (…) Probabilmente pensa che il mondo stia cospirando contro l’Egitto e che l’omosessualità sia una religione alla quale vogliamo che aderiscano altre persone. Non ha altre fonti per farsi un’opinione, a parte la sua famiglia, i religiosi, la scuola e i media».

Mentre accadeva tutto questo, fuori era in corso una violenta repressione contro la comunità gay egiziana. Almeno 75 persone erano state accusate nei giorni immediatamente successivi al concerto e decine di loro condannate da uno a sei anni di prigione. Nel gennaio del 2018, dopo le discrete pressioni di alcuni diplomatici occidentali e sudamericani, scrive il New York Times, a Hegazi era stata concessa la libertà su cauzione. Ma cadde in depressione, venne licenziata dal lavoro e ripudiata da alcuni membri della famiglia. Fuori dal carcere continuò a essere attaccata per il suo gesto, per il suo orientamento sessuale e per le sue idee. Temendo di poter essere nuovamente arrestata scappò in Canada, dove le venne concesso asilo politico.

Sempre nel 2018 Hegazi scriveva: «Chiunque sia diverso, chiunque non sia un musulmano sunnita eterosessuale maschio che sostiene il regime al potere è considerato perseguibile, impuro o morto». E ancora, il 6 marzo del 2020: «In Egitto ogni persona che non sia maschio, musulmano, sunnita, etero e sostenitore del sistema, viene respinta, repressa, stigmatizzata, arrestata, esiliata o uccisa. Tutto questo è collegato al sistema patriarcale nel suo insieme, poiché lo stato non può praticare la propria repressione contro i cittadini senza un’oppressione preesistente che ha inizio fin dall’infanzia». Politicamente, Hegazi non accusava solo il regime di Abdel Fattah al Sisi, ma anche i Fratelli Musulmani, i salafiti e gli estremisti in generale: «Alla fine si sono trovati d’accordo con il potere dominante: hanno avuto la stessa posizione verso di noi. Si sono trovati d’accordo sulla violenza, sull’odio, sul pregiudizio e sulla persecuzione. Forse sono due facce di una stessa medaglia. Abbiamo trovato una mano solo nella società civile, che ha fatto il suo lavoro nonostante le restrizioni oppressive dello stato sulle sue attività».

Poco dopo essere partita per il Canada sua madre morì, e lo stato di salute di Hegazi peggiorò: soffriva di ansia e di attacchi di panico, iniziò a balbettare, tentò il suicidio due volte. «Era arrabbiata per tutto ciò che le era stato fatto. Voleva tanto tornare, ma temeva di essere arrestata», ha detto Fouad, il suo avvocato. La morte di Hegazi e la sua lotta sono state raccontate su tutti i giornali internazionali, negli ultimi giorni. In Egitto, accanto a coloro che continuano a denunciare le sue azioni e a dire che meritava di morire, molti hanno sostituito le loro foto sui social network con bandiere arcobaleno.

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