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  • Giovedì 5 marzo 2020

Da dove cominciare con il femminismo

Un nuovo libro spiega in modo chiaro perché negli ultimi anni siamo tornati a parlarne molto a chi pensava che fossimo già pari

Un dettaglio della copertina di "Le ragazze stanno bene" di Giulia Cuter e Giulia Perona, pubblicato da Harper Collins
Un dettaglio della copertina di "Le ragazze stanno bene" di Giulia Cuter e Giulia Perona, pubblicato da Harper Collins

Negli ultimi cinque anni si è tornato a parlare tanto di femminismo. Il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, le differenze salariali tra uomini e donne, le imposte sugli assorbenti, le molestie sessuali sul luogo di lavoro e il fenomeno dei femminicidi sono i temi più importanti di cui si stanno occupando le attiviste femministe, che più in generale hanno riportato nel discorso pubblico una questione importante: non c’è ancora una totale parità tra uomini e donne.

Insieme agli hashtag sui social, alle manifestazioni e alle influenze su cinema e serie tv, questa nuova ondata di femminismo ha portato alla pubblicazione di molti libri sul tema: alcuni accademici e molto specialistici, altri di divulgazione, pensati per bambine, ragazze, giovani donne, ma anche uomini che vorrebbero saperne di più su questioni su cui hanno avuto poche occasioni di riflettere. Da oggi in libreria ce n’è uno nuovo particolarmente adatto per chi in questi anni si è accorto delle battaglie femministe solo da lontano: si intitola Le ragazze stanno bene e lo hanno scritto Giulia Cuter e Giulia Perona, autrici del podcast di racconti Senza Rossetto, nato nel 2016 per celebrare i 70 anni del voto alle donne in Italia.

Cuter e Perona hanno trent’anni e hanno imparato a conoscere il femminismo da adulte, in quel periodo della vita in cui si finisce di studiare e si inizia a lavorare, si va a vivere da soli o si decide di convivere, e, in alcuni casi, si pensa al matrimonio e a diventare genitori: è anche il periodo in cui è più facile, nell’Italia di oggi, scoprire quali problemi il femminismo deve ancora risolvere. In Le ragazze stanno bene sono esaminati uno per uno e raccontati dal punto di vista di una giovane donna – una “Giulia” di invenzione, che raccoglie in sé le esperienze delle due autrici, delle loro amiche e conoscenti. Oltre agli aneddoti personali però ci sono soprattutto spiegazioni chiare e documentate sulle questioni di cui si è occupato il femminismo di questi anni, oltre a quelle già citate, il rapporto delle donne con il proprio corpo, il modo in cui sono cambiate le relazioni sentimentali e sessuali e la partecipazione politica.

Pubblichiamo un estratto di Le ragazze stanno bene, dal capitolo sulla maternità, che fa capire bene come è fatto il libro.

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No embarazada, diceva il mio primo test di gravidanza. Avevo ventidue anni ed ero in Erasmus in Spagna. Il mio ragazzo ai tempi era in Italia, avevo appena trascorso un weekend con lui e ovviamente le mestruazioni avevano deciso di ritardare proprio quel mese. Non c’erano dei veri rischi, avevamo avuto rapporti protetti, ma l’ansia era comunque tanta. Dopo giorni di supposizioni e angosce, la mia amica Camilla si è presentata a pranzo con un test di gravidanza per me. Oggi ci ridiamo su, la ricordiamo come una delle tante cose senza senso che abbiamo fatto in Erasmus, ma quel pomeriggio la smania di accertarci che non fossi incinta e potessi continuare a bere birra era tanta che finii per fare il test nei bagni della biblioteca. Ironia della sorte, la biblioteca dell’Università pontificia di Salamanca. Io chiusa in bagno con l’ansia, Camilla fuori che leggeva il risultato a gran voce: tutto al cospetto di Dio.

Meno fortunata di me, invece è stata la mia amica Sofia: «Sono incinta». Ricordo perfettamente, e lo ricorderò per sempre, il giorno in cui mi ha telefonato per dirmelo. Paura, delusione, rabbia, senso di colpa, ansia. La sua voce tradiva queste e molte altre emozioni, tutte tranne una: dubbio. Sofia aveva ventitré anni, un fidanzato di cui era innamorata ma che certamente non era quello giusto (e infatti, indovinate? Si sono lasciati), un percorso di studi avviato ma ancora lungo davanti, grandi sogni e altrettanto grandi ambizioni che oggi sta passo passo realizzando, anche perché quel giorno non aveva dubbi: ancora prima di telefonare per annunciarmi di essere incinta, Sofia aveva fatto la sua scelta e qualche settimana dopo ha abortito. Sono passati molti anni, ma non l’ho mai sentita dire di essersene pentita. Eppure la narrazione dell’aborto viene spesso assimilata a una retorica della sofferenza assolutoria: abortire è sempre traumatico e doloroso. Abortisce solo chi non può fare un figlio, non chi non lo vuole, o non ne vuole un altro (si stima che il 59% delle donne che abortiscono siano già madri), ma secondo il Guttmacher Institute quella dell’aborto è un’esperienza così comune da riguardare quasi una donna su quattro entro i quarantacinque anni.

Come si chiedeva Laurie Abraham su Elle nell’ottobre 2014, allora, «perché siamo così spaventati dal parlarne, o dal riconoscere che le nostre vite sarebbero state peggiori delle nostre aspettative senza l’aborto? Perché siamo così convinte che dovremmo rimpiangere la nostra scelta e che c’è qualcosa di sbagliato se non ce ne pentiamo?». L’aborto è un’esperienza che può capitare a ciascuna di noi e dovremmo sentirci libere di viverla come vogliamo, ricordandoci che il trauma necessario è un argomento molto caro al patriarcato: quel Te lo vieto per il tuo bene, perché non voglio che tu te ne penta che ci hanno detto tante volte anche i nostri genitori. Ma questa tendenza a deresponsabilizzare la persona che invece sceglie consapevolmente di interrompere una gravidanza nasconde anche un altro enorme stereotipo che riguarda le donne: l’istinto materno.

Nel 2017 è uscito in Italia per Bollati Boringhieri un libro intitolato Pentirsi di essere madri, in cui la sociologa israeliana Orna Donath raccoglieva e analizzava le testimonianze di ventitré donne tra i ventisei e i settantatré anni che raccontavano la loro esperienza di madri e, seppur con ragioni diverse, dichiaravano di essersi pentite di esserlo diventate. Il libro ha fatto molto parlare di sé e ha suscitato diverse polemiche perché, come suggeriva la stessa Donath nel sottotitolo, quello delle donne che rifiutano il loro ruolo di madri è ancora un vero e proprio tabù in quasi tutte le società. Se ci pensate, scegliere di non avere figli per una donna è già di per sé poco accettabile: quante volte vi è capitato di sentire dire a un’amica, una collega, una parente (se non siete voi stesse a fare questa affermazione) che dichiarava di non voler diventare madre Dici così adesso, ma poi vedrai… o Forse non hai trovato la persona giusta, ma quando la troverai vorrai dei figli anche tu? Come a dire che il desiderio di avere figli è qualcosa di innato in una donna, che prima o poi arriva per tutte, anche per quelle che consapevolmente hanno scelto di non voler fare questa esperienza.

Di un uomo che non vuole diventare padre non si dice lo stesso, magari si dice che è un eterno Peter Pan, un bambinone che non vuole crescere e non vuole assumersi le proprie responsabilità, ma non si dice mai che prima o poi desidererà diventare padre perché succede a tutti. Quella degli uomini è sempre una scelta, dettata dalla pigrizia o dall’immaturità, ma una scelta. Il nostro è un pensiero passeggero, un’idea temporanea che presto cambieremo. Perché tutte desideriamo essere madri.

Capite che partendo da questi presupposti un libro come quello di Donath è rivoluzionario, se non scandaloso, agli occhi di molti. Come può una madre, in alcuni casi addirittura una nonna, di fronte alle vite che ha messo al mondo dire che se tornasse indietro non lo rifarebbe? Può sembrare contraddittorio, ma tutte e ventitré le intervistate dichiarano di amare profondamente i propri figli: semplicemente rifiutano il ruolo di madre, le aspettative che i figli e la società hanno nei loro confronti; rimpiangono la vita che avevano prima. Ciò dipende dal valore negativo che le società neoliberali danno al sentimento del rimpianto: il desiderio di cancellare l’irreversibile è considerato inadeguato in un mondo orientato al successo e alla resilienza. Figuriamoci quando riguarda un tabù come quello della negazione del proprio ruolo di madri!

Eppure, nessuno sa cosa sia davvero l’istinto materno. Né gli psichiatri, né gli psicologi, né gli analisti e neppure le madri. Quando vedete una mamma prendersi cura del proprio figlio, allattarlo, cambiargli i pannolini, farlo addormentare, e provate a chiederle come faccia, lei vi risponderà che è tutto frutto dell’esperienza. Voi sorriderete pensando Eh già, l’istinto materno ma quella della madre è la stessa risposta che potrebbe darvi anche una commessa di H&M che riesce a piegare perfettamente le magliette con una sola mano. Come scriveva nel 1981 la filosofa francese Elisabeth Badinter nel saggio L’amore in più, l’amore materno non è altro che un sentimento umano, quindi imperfetto, labile e mutevole. Al contrario di ciò che si pensa, forse non è parte integrante della natura femminile. È un sentimento umano e, non dimentichiamoci, un costrutto sociale, come molti studi recenti stanno dimostrando.

Secondo la sociologa Laura Kipnis l’idea dell’istinto materno sarebbe nata durante la Rivoluzione industriale, quando la maggiore disponibilità di lavoro contribuì alla riorganizzazione dei ruoli – uomini in fabbrica, donne in cucina – e i figli non erano più necessari per il sostentamento delle famiglie. Smettere di farne sembrava impossibile e quindi si sarebbe dato ini- zio a una narrazione più romantica della maternità, non più qualcosa che le donne avrebbero fatto per necessità ma per vera e propria vocazione. In realtà madri si diventa, non si nasce, come spiega bene nel suo romanzo Cattiva (Einaudi, 2018) la scrittrice Rossella Milone: «E allora capisco che è questo, il nodo: quando una nube bianca di gioia e una nube nera di disperazione si incontrano al centro della madre, e la madre non sa che fare. Sa che ci deve passare dentro. La madre questa cosa la sa bene; ma è il come, che non sa. A imparare il come uno ci mette tempo, che è sempre troppo lungo rispetto al tempo veloce che ti chiede una neonata». Come per ogni cosa, ci vuole tempo per imparare, e una delle cose che dovremmo iniziare a pretendere dalla società che ci circonda e da noi stessi è un po’ più di indulgenza nei confronti delle madri.

Torniamo a Meghan Markle. Nella primavera del 2019 una sua foto con il neonato figlio Archie ha fatto urlare allo scandalo tabloid e riviste di gossip di tutto il mondo: la duchessa del Sussex non teneva in braccio il bambino nel modo corretto! Oppure prendiamo La fantastica signora Maisel, una delle serie più apprezzate degli ultimi anni per la caratterizzazione dei suoi personaggi femminili, vastamente criticata perché il rapporto della protagonista Midge con i suoi due figli è quasi totalmente irrilevante nella narrazione, funzionale solo all’indagine del rapporto con l’ex marito Joel. Insomma, siamo sempre pronti a dire a una donna cosa dovrebbe fare o non fare in quanto madre, ma spesso ci dimentichiamo che l’esperienza della maternità non è il centro della sua vita e non è sempre rosa e fiori come siamo abituati a vederla dipinta. Anzi, in alcuni casi può essere addirittura traumatica, a partire dal parto.

Secondo uno studio condotto su un campione di 424 donne italiane con figli di età compresa tra gli zero e i quattordici anni e pubblicato nel 2018 sullo European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology il 21,2% delle intervistate afferma di essere stata vittima di violenza ostetrica. Per violenza ostetrica si intende una forma di abuso nelle cure ostetrico-ginecologiche che può essere effettuata da ognuno degli operatori sanitari che prestano assistenza alla partoriente e al neonato (quindi non solo le ostetriche, ma anche i ginecologi e il personale sanitario di supporto). Il termine non fa riferimento a situazioni di abuso o danno deliberato, ma si riferisce a condizioni normali, e non emergenziali, in cui gli operatori sanitari impongono procedure mediche standardizzate senza il consenso dell’assistita, senza la sua adeguata preparazione o in alcuni casi contro la sua volontà. Sempre secondo questo studio, il 33% delle donne ha anche dichiarato di aver ricevuto un’assistenza inadeguata durante il parto e il 34% ha denunciato problemi di privacy e di fiducia nei confronti del personale sanitario presente ad assisterla.

Da quando divido l’appartamento con Valentina, che è ostetrica in uno degli ospedali più importanti della mia città, oltre a essermi passata qualsiasi voglia di partorire, mi piace molto parlare con lei di questo problema. Pur riconoscendone l’esistenza, secondo Valentina anche l’idea della violenza ostetrica è frutto di una narrazione sbagliata dell’intera esperienza del parto: secondo lei i parti peggiori sono quelli delle madri più preparate e informate, e quindi più cariche di aspettative, perché le cose spesso non vanno come si erano immaginate. Così come siamo abituate a pensare che la maternità sia la massima aspirazione nella vita di una donna, così come ci hanno detto che la gravidanza ci rende più belle, siamo spinte anche a pensare che il parto sarà un momento di poesia e catarsi. Invece è uno schifo, un’esperienza che se il nostro corpo non fosse abituato a dimenticare il dolore non vorremmo rivivere mai più, un momento traumatico dal punto di vista fisico e mentale a cui tutti dovremmo arrivare meglio preparati: il personale sanitario ascoltando di più le esigenze delle donne, le donne condividendo la realtà del parto, allontanandosi da credenze, falsi miti e generalizzazioni.

Come sosteneva Elsa Viora, presidente dell’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani (AOGOI), in un’intervista a Vice Italia del maggio 2018, bisogna lavorare su una medicina di condivisione: «Dobbiamo pensare a fare delle indagini sul gradimento, sulla qualità percepita, sul coinvolgimento delle donne in modo prospettico, non a posteriori. Noi possiamo essere convinti di avere avuto un ottimo risultato, perché si è evitata una grave conseguenza o addirittura la morte, e magari la donna ha percepito tutto questo come evento negativo».

Un altro problema che spesso si sottovaluta di una gravidanza è la depressione post partum, ovvero quella sindrome che si può verificare in periodo perinatale (periodo che comprende la gravidanza, il puerperio e i primi dodici mesi di vita del bambino) e che si manifesta con veri e propri disturbi depressivi e d’ansia nella madre, andando a intaccare la creazione del legame affettivo con il figlio. Secondo i dati diffusi dall’Associazione Kairos nel 2018, il 15% delle mamme italiane (circa una su dieci) soffre di una qualche forma depressiva nei primi tre mesi dal parto. Significa che solo in Italia questa è una patologia che colpisce cinquanta-centomila donne ogni anno, di cui solo la metà chiede aiuto perché, ancora una volta, la pressione sociale del dover essere una buona madre è altissima.

E poi c’è il problema del conciliare la maternità con il lavoro. Come abbiamo visto, il peso che una gravidanza ha sulla potenziale carriera di una donna è enorme, ma è anche vero che esistono delle soluzioni per ridimensiona- re il fenomeno. La più ovvia è il congedo di paternità. In Italia il congedo di maternità obbligatorio per le madri dura cinque mesi: l’ultimo o gli ultimi due di gravidanza e i quattro o i tre successivi al parto. Durante il governo Conte I è stata però introdotta la possibilità di lavorare fino al nono mese di gravidanza, prendendone quindi cinque dopo la nascita del bambino. Per gli uomini, invece, si parla solo di cinque giorni obbligatori. Per il periodo successivo si può usufruire del congedo parentale, facoltativo e retribuito al 30%, di cui possono beneficiare entrambi i genitori a scelta nei primi dodici anni di vita del bambino. Il discorso però vale solo per i lavoratori dipendenti.

Secondo lo studio Promoting uptake of parental and paternity leave among fathers in the European Union condotto da Eurofound nel 2015, negli stati dell’Unione Europea in cui i congedi parentali possono essere usati da entrambi i genitori sono sempre le madri a usufruirne di più. Dove invece il congedo è un diritto individuale, e non cedibile all’altro genitore, i padri ne fanno un uso maggiore. Forse qualcuno se ne sta accorgendo, infatti all’inizio del 2019 il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo hanno proposto una direttiva che prevede un accordo per cui i neopapà potranno chiedere almeno dieci giorni di congedo di paternità dopo la nascita o l’adozione di un figlio. Ignorare il ruolo sociale dei padri è sbagliato tanto quanto continuare a perpetuare gli stereotipi legati alla maternità e alla gravidanza che abbiamo tentato di smontare fino a qui. Forse aveva ragione Cohen quando diceva che è proprio la maternità a impedire la totale liberazione della donna, ma perché non siamo ancora riuscite a ridimensionare il controllo che la società esercita sul corpo delle donne e a costruirne una narrazione nuova e più realistica?

Come ha ironizzato la scrittrice Geraldine DeRuiter su Twitter nel maggio 2019: «Le vasectomie sono reversibili, perché non ne facciamo una a tutti gli uomini, alla nascita, per poi toglierla solo se si dimostrano abbastanza responsabili? Ah già: non si può disporre del corpo degli uomini in quel modo. Su quello delle donne, invece, liberi tutti».

Ribaltare questa prospettiva è il passo fondamentale che dovremo compiere per raggiungere la parità di genere.

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