Cosa si dice di “Hunters”

È la discussa serie di Amazon Prime Video ambientata negli anni Settanta a New York, con Al Pacino a capo di una squadra di cacciatori di nazisti

Da oggi su Amazon Prime Video sono disponibili i dieci episodi di Hunters, una nuova serie ambientata nella New York degli anni Settanta, in cui un personaggio interpretato da Al Pacino è a capo di una squadra di “cacciatori di nazisti”. Il produttore esecutivo della serie è Jordan Peele – sceneggiatore e regista di Scappa – Get Out  – ma il creatore è David Weil, alla sua prima serie. A leggere quel che se ne scrive in giro, Hunters è una serie che non lascia indifferenti: è spiazzante nel suo trattare l’Olocausto e nel suo mischiare stili e generi d’ispirazione, oltre che contesti e riferimenti.

Entrando un po’ più nel dettaglio della trama, il punto di vista con cui gli spettatori accedono alla storia è quello di Jonah Heidelbaum, un ragazzo non ancora ventenne che vive a Brooklyn con la nonna, ex internata ad Auschwitz. Nei primissimi minuti del primo episodio la nonna viene uccisa da un uomo di cui Jonah, interpretato da Logan Lerman, vuole scoprire l’identità. Mentre prova a farlo, conosce Meyer Offerman, interpretato da Pacino (che aveva già recitato in un film per la tv come Phil Spector e in una miniserie come Angels in America, ma che a 79 anni è al suo primo ruolo da co-protagonista in una vera e propria serie). Offerman è un tipo piuttosto misterioso, che all’inizio dice e non dice, ma non ci vuole molto a capire che è il capo di una squadra di cacciatori di nazisti e che Jonah è destinato a farne parte. Una frase che ben sintetizza il punto di vista di Offerman è: «Sai qual è la migliore vendetta? La vendetta». Jonah, invece, ha meno certezze.

L’obiettivo della squadra – che opera di nascosto ed è composta da individui certamente peculiari – è scovare nazisti che dopo la caduta del Terzo Reich sono riusciti a rifarsi una vita negli Stati Uniti, uno dei quali si è addirittura intrufolato nell’amministrazione del presidente Jimmy Carter. Ma Hunters racconta parallelamente altre due storie: quella di alcuni nazisti il cui obiettivo è formare il Quarto Reich, questa volta partendo dagli Stati Uniti, e quella di una detective che si trova a indagare sull’omicidio di quella che scopre essere un’ex scienziata nazista. Non ci vuole molto per capire come queste trame si possano incontrare.

Di base, Hunters quindi è la storia – per grandissima parte inventata, anche se qualcosina di vero c’è – di un gruppo di persone che, di nascosto, indagano su altre persone per capire e accertare quel che fecero durante gli anni del nazismo, e per punirle uccidendole. Le vendette sono mostrate senza troppe remore, e anche le colpe di chi viene ucciso sono mostrate con flashback che riportano ai tempi dell’Olocausto e che in genere sono ambientati nei campi di concentramento.

Questa cosa non è stata apprezzata da tutti. In effetti, la critica più presente e pressante mossa ad Hunters ha a che fare con il modo in cui mostra eventi violenti e spesso sadici ambientati negli anni del nazismo, per di più inventati o comunque non storicamente provati (per chi guarderà o ha già iniziato a guardare la serie, è il caso della partita di scacchi).

Dorothy Rabinowitz sul Wall Street Journal ha parlato di una «degradazione di quello che fu davvero»; Daniel Fienberg sull’Hollywood Reporter ha scritto che «così tante orribili e inumane cose furono fatte durante l’Olocausto che è strano scegliere di crearne di nuove», e ha aggiunto che gli è sembrata una sorta di «sensazionalizzazione dell’Olocausto». In una serie che, tra l’altro, scrive sempre Fienberg, «salta da scene d’azione vivaci, intense e addirittura divertenti a scene da incubo, legate all’Olocausto». È chiaramente una scelta intenzionale – e non è nemmeno detto che la serie voglia far passare come realmente attendibili i resoconti da cui partono i flashback – ma è comunque qualcosa che, comprensibilmente, fa riflettere chi lo vede.

Altre critiche, diciamo più tecniche, hanno coinvolto lo stile della serie, che in realtà è l’unione e la sovrapposizione di tanti stili: da momenti d’azione si passa ad altri più divertenti, da contesti da fumetto a contesti molto più realistici, «dal naturalismo si passa alla stilizzazione». Mike Hale, critico televisivo del New York Times (che non ha criticato le scene ambientate nell’Olocausto) ha scritto, anche a proposito dei tanti stili e approcci di Hunters, che «non c’è nulla di inappropriato» nel modo in cui la serie fa queste cose, ma anche che «non c’è nulla di particolarmente interessante nel modo in cui lo fa».

Uno dei riferimenti più evidenti di Hunters, non solo per il tema trattato, è Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Daniel D’Addario però ha scritto su Variety che c’è una ragione se quello che riuscì a fare Tarantino fu così celebrato, e quella ragione è che «era difficile farlo». Secondo D’Addario, Hunters ci ha provato ma non ci è riuscita.

Ma Hunters – considerata una delle nuove serie più attese dell’anno – ha ricevuto anche alcuni apprezzamenti: per il cast (compreso Al Pacino, in un ruolo per lui insolito), per il coraggio di averci comunque provato, per alcune scene e momenti più riusciti (in genere quelli ambientati negli anni Settanta). Sul Wall Street Journal Rabinowitz ne ha parlato come di una serie comunque «interessante, vivace e ambiziosa»; su Hollywood Reporter, Fienberg ha scritto di non essere ancora riuscito a capire se sia bella o brutta, ma che intanto la considera «intrigante».

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