• Mondo
  • Sabato 25 gennaio 2020

Il successo poco limpido di Oyo

Il New York Times ha raccontato truffe, mancati pagamenti e un brutto ambiente di lavoro nel servizio che permette di prenotare hotel in tutto il mondo

Ritesh Agarwal, fondatore e amministratore delegato di Oyo Hotels and Homes, Tokyo, luglio 2019 (Rodrigo Reyes Marin/ZUMA Wire)
Ritesh Agarwal, fondatore e amministratore delegato di Oyo Hotels and Homes, Tokyo, luglio 2019 (Rodrigo Reyes Marin/ZUMA Wire)

Oyo Hotels and Homes è un servizio indiano di prenotazione alberghiera a basso costo che in pochi anni è diventato tra le società più importanti del paese. Oyo è anche la più grande catena al mondo per numero di proprietà: oggi è presente in ottanta paesi e punta a diventare, entro il 2023, il primo gruppo al mondo nel settore per dimensione, ricavi e margini. Un articolo pubblicato da poco dal New York Times – che raccoglie decine di interviste e una serie di documenti (finanziari, giudiziari, messaggi di WhatsApp, email, reclami e altro ancora) – ha però raccontato che l’ascesa della società è avvenuta, almeno in parte, grazie a pratiche che dipendenti, ex dipendenti ed ex dirigenti hanno definito «discutibili».

Oyo fu fondata nel 2013 da Ritesh Agarwal, allora uno studente di 19 anni nato in uno degli stati più poveri dell’India: dopo aver viaggiato nel paese con pochi soldi, Agarwal (che allora vendeva schede SIM per i cellulari) ebbe l’idea di offrire un servizio online che mettesse insieme, sotto un unico marchio, hotel economici e pensioni tradizionalmente gestite a livello familiare. Oyo pubblicizza e commercializza le camere trattenendo una percentuale da ogni struttura associata, gestisce direttamente alcuni alberghi, aiuta i proprietari a migliorare gli arredi e i servizi, offrendo lenzuola e articoli da bagno standard, e li affianca nella formazione del personale.

Nel giro di pochissimo tempo, Oyo si è espansa a livello mondiale e attualmente offre più di 1,2 milioni di camere in hotel di proprietà o in franchising in 80 diversi paesi, compresi Stati Uniti, Cina, Malesia, Nepal, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giappone, Indonesia, Filippine e altri ancora. Impiega più di 20mila persone e ha raccolto finanziamenti per oltre 2,5 miliardi di dollari, circa 2,2 miliardi di euro. Attualmente è la più grande catena al mondo per numero di strutture, come mostra un grafico del Wall Street Journal di qualche mese fa.

Il New York Times ha però documentato una serie di pratiche poco trasparenti dell’azienda. Oyo offrirebbe infatti anche camere che non sono disponibili e camere di strutture che hanno rinunciato ai suoi servizi, con l’obiettivo di gonfiare l’offerta; inoltre migliaia di stanze si troverebbero in hotel e pensioni che non hanno una licenza regolare. Per evitare controlli e conseguenze, poi, Oyo avrebbe offerto alloggio gratuito a poliziotti e altri funzionari, perlomeno stando alle testimonianze di nove dipendenti ed ex dipendenti con cui ha parlato il New York Times.

In altre occasioni Oyo avrebbe imposto commissioni non previste o troppo esose agli hotel, rifiutandosi poi di pagare quanto dovuto loro. Saurabh Sharma, che ha lavorato come dirigente per Oyo dal 2014 al 2018, ha raccontato al New York Times che la società avrebbe deliberatamente trattenuto i pagamenti dai proprietari degli hotel, una pratica confermata anche da altri fonti, che avrebbe spinto i proprietari a rinegoziare contratti più redditizi; Oyo, ha spiegato sempre Sharma, avrebbe approfittato della tendenza dei proprietari a non richiedere il pagamento completo che era stato pattuito.

I dipendenti o gli ex dipendenti intervistati dal New York Times hanno anche denunciato un ambiente di lavoro tossico, che eserciterebbe sui dipendenti moltissime pressioni per aumentare il numero di strutture offerte e impressionare gli investitori, a costo di inserire foto e informazioni false di camere che invece non hanno aria condizionata, scaldabagno o elettricità. In alcuni casi sarebbero state fatte delle pressioni anche su alcuni clienti, affinché non presentassero un reclamo e non compromettessero la reputazione del servizio stesso. Uno di questi casi riguarda una cliente abituale, che avrebbe subito una violenza sessuale in un hotel Oyo a Noida, vicino a Nuova Delhi, e avrebbe deciso di non denunciarla in seguito all’intervento di alcuni dirigenti della società.

Oyo fa parte di un gruppo di start-up indiane finanziate negli ultimi anni da grandi investitori stranieri come SoftBank, un gruppo finanziario giapponese che possiede metà delle azioni della società. Lo scorso dicembre, SoftBank e Agarwal avevano raccolto 1,5 miliardi di dollari (1,3 miliardi di euro) per espandere Oyo sui mercati esteri, come Europa e Stati Uniti; Sequoia Capital e Lightspeed Venture Partners, due investitori californiani presenti nel consiglio di amministrazione di Oyo, avevano ridotto le loro partecipazioni, vendendo 1,5 miliardi di dollari in azioni – circa la metà delle quote che possedevano – ad Agarwal.

Le pratiche di Oyo denunciate dal New York Times non sono state commentate da SoftBank. In una recente intervista, Ritesh Agarwal ha ammesso che Oyo aveva offerto alcune camere di hotel che non aderivano più al servizio, ma si è giustificato dicendo che quelle stesse camere, sulla piattaforma, erano state contrassegnate come “esaurite”. Aditya Ghosh, uno dei dirigenti di Oyo in India, ha a sua volta ammesso che molti hotel pubblicizzati dal gruppo non avevano le licenze necessarie, ma ha negato che Oyo avesse corrotto funzionari e poliziotti regalando soggiorni. Ghosh ha respinto anche le accuse di commissioni extra e del mancato pagamento ai proprietari.