Chi era Bettino Craxi

Provando a mettere in fila i fatti, fino alla morte il 19 gennaio del 2000

di Mario Macchioni

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Una manifestazione in memoria di Craxi a Roma, in piazza Navona, 31 gennaio 2000 (©MAURO SCROBOGNA/LAPRESSE)

Nel 1976 il Partito Socialista Italiano se la passava piuttosto male. A giugno c’erano state le elezioni politiche, in cui aveva preso poco meno del 10 per cento, un risultato sotto le aspettative, e la guida del vecchio segretario Francesco De Martino era stata messa in discussione dai militanti e dai quadri intermedi. Secondo molti era ora di cambiare, e si decise quindi di convocare il Comitato centrale (l’organo collegiale del PSI) per il 15 luglio all’hotel Midas di Roma, sulla via Aurelia. Bisognava cercare una soluzione di transizione fuori dalla corrente maggioritaria di De Martino, ma era complicato: oltre ai demartiniani c’erano infatti i lombardiani, i manciniani e gli “autonomisti” del leader storico Pietro Nenni, tutte correnti con lo stesso peso all’interno del partito.

Poco prima dell’elezione uno dei capi-corrente, Giacomo Mancini, chiamò il demartiniano Giovanni Mosca e gli chiese di sondare le possibilità di Bettino Craxi, un giovane della corrente di Nenni, vicesegretario del partito proprio insieme a Mosca. Craxi non era conosciuto a livello nazionale e Mancini pensava fosse perfetto per traghettare brevemente la segreteria. Anche Mosca la pensava così, e infatti gli rispose: «Craxi conta un cazzo, perciò può mettere d’accordo tutti». Gli altri leader socialisti, convinti di poterlo rimuovere in pochi mesi, lo votarono e Craxi fu eletto segretario. Non andò proprio secondo le previsioni. Craxi avrebbe mantenuto il ruolo per i sedici anni successivi, arrivando nel frattempo a guidare uno dei governi più lunghi della storia repubblicana prima degli scandali giudiziari, della fuga dall’Italia e della morte il 19 gennaio del 2000.

Prima di diventare segretario
Benedetto Craxi nacque a Milano nel 1934, in pieno fascismo. La sua famiglia era ostile al regime — suo padre Vittorio si sarebbe poi candidato al Parlamento con il PSI — e all’inizio della guerra fu mandato in un collegio religioso in provincia di Como, sia per tenerlo lontano dal pericolo che per contenere il suo carattere turbolento: in almeno due occasioni, infatti, causò disordini insieme ad alcuni amici coetanei, una volta insultando un corteo di “balilla” (i giovani fascisti) e un’altra rompendo a sassate i vetri di una Casa del fascio, cioè la sede locale del partito fascista. Entrambi gli episodi causarono preoccupazioni in famiglia, perché avvennero prima della liberazione del 25 aprile 1945, in un periodo in cui gli strascichi di violenze portati dalla guerra erano ancora frequenti.

Dopo essersi diplomato al liceo Carducci di Milano, che si trova ancora oggi vicino a piazzale Loreto, Craxi decise di iscriversi a giurisprudenza per seguire la strada del padre, che aveva uno studio legale a Milano da cui passarono molti illustri personaggi dell’antifascismo, tra cui il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini. Nello stesso periodo si iscrisse al PSI, senza farne parola con suo padre. La famiglia voleva che diventasse avvocato, ma dopo aver dato parecchi esami decise infine di lasciare gli studi per dedicarsi completamente alla vita di partito.

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Craxi e Pietro Nenni nel 1957 (LaPresse/Publifoto)

Negli anni Cinquanta Craxi cominciò a frequentare gli ambienti culturali milanesi e si accorse che i comunisti erano molto più influenti e presenti, soprattutto grazie al contributo di Rossana Rossanda, che sarebbe poi diventata responsabile culturale del PCI e fondatrice del quotidiano Il Manifesto. Nel frattempo Craxi cominciò a collaborare con vari giornali dell’area socialista, tra cui l’Avanti!, e rimase colpito dall’organizzazione del partito messa in moto da Rodolfo Morandi, segretario del PSI a fine anni Quaranta. Grazie a lui il partito si espanse e diventò un vero partito di massa: aprirono diverse sezioni locali, soprattutto al Sud, e gli iscritti diventarono più di 700mila.

Come ha sottolineato lo storico Luigi Musella, autore di una delle più complete biografie su Craxi, l’insegnamento di Morandi rimase impresso nel giovane Craxi: l’idea secondo cui fosse necessario costruire un’identità politica autonoma, che si differenziasse dagli altri partiti e in particolare da quello comunista, sarebbe stata poi in effetti un tratto distintivo dell’azione di Craxi segretario.

Per tutti gli anni Sessanta Craxi ricoprì una serie di ruoli a livello locale, da assessore al comune di Milano a segretario provinciale del partito, poi nel 1968 fu eletto deputato, ma mantenne sempre uno stretto contatto con i compagni di partito milanesi, tra cui il cognato e futuro sindaco Paolo Pillitteri, formandosi una rete di collaboratori fidati prima a livello locale e poi nazionale, che negli anni Ottanta sarebbe stata definita da Eugenio Scalfari «la banda». Nel 1970 divenne vicesegretario del partito con il compito di curare i rapporti internazionali, cosa che gli permise di aumentare le sue conoscenze anche all’estero. Nonostante questo, al momento dell’elezione al Midas del 1976, Craxi era poco conosciuto e sottovalutato: sull’Unità Mario Melloni – più noto con lo pseudonimo di Fortebraccio – lo definì “Nihil, il signor nessuno”, e anche sugli altri giornali dell’epoca se ne parlò come di un personaggio di rango minore.

Il problema PCI
Da segretario di partito, Craxi dovette affrontare almeno due grandi problemi, collegati fra loro: la perdita di rilevanza del PSI e la sua scarsa performance elettorale. La causa di questi due problemi era chiara ed evidente a tutti, e fu sintetizzata molto bene dal filosofo Norberto Bobbio durante un convegno: «Nel nostro paese un forte partito socialista c’è; ma non è il partito socialista». Il riferimento era evidentemente al Partito Comunista Italiano, il cui consenso era costantemente in crescita, al punto che si temeva che fosse sul punto di sorpassare la Democrazia Cristiana, mandando all’aria il precario equilibrio su cui si era retta la repubblica nei trent’anni precedenti.

(Wikimedia Commons)

Craxi era socialista ma anti-comunista, e per questo era visto con favore anche dagli americani. Era espressione di una sinistra di tipo europeo e lontana da Mosca, e provò a mettere in discussione l’egemonia del PCI nella sinistra italiana attraverso una serie di iniziative, tutte volte a ribadire l’autonomia socialista: innanzitutto si oppose con forza al cosiddetto “compromesso storico”, che stava avvicinando democristiani e comunisti e rischiava di estromettere i socialisti, e usò come base d’appoggio intellettuale la “strategia dell’alternativa”, cioè l’idea secondo cui la sinistra doveva alternarsi alla DC in una sorta di bipolarismo, e non farci un’alleanza; poi teorizzò il superamento del marxismo, in particolare attraverso un famoso saggio scritto sull’Espresso nel 1978 in cui, tra gli altri, veniva citato il filosofo francese Pierre Joseph Proudhon, che definiva il comunismo «una “assurdità antidiluviana”». Infine, l’attacco definitivo al PCI avvenne tramite il riavvicinamento con la DC a partire dal 1979.

Craxi si distanziò dal PCI persino durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro, nel 1978: fu l’unico a sostenere pubblicamente la necessità di aprire una trattativa con le Brigate Rosse, cosa che effettivamente provò a fare in segreto (si è poi ipotizzato che il suo contatto tra i brigatisti fosse un vecchio professore ex compagno di partito, Corrado Simioni).

Al governo
L’attivismo e la capacità di Craxi di sparigliare le carte in una politica ingessata e immobile – la Democrazia Cristiana governava dalla fine della guerra, il Partito Comunista non poteva andare al governo – diede al Partito Socialista un ruolo centrale nonostante le sue dimensioni ridotte, e questo permise a Craxi, dopo il successo elettorale del 1983, di ottenere la presidenza del Consiglio alleandosi con la Democrazia Cristiana, diventando il primo socialista ad avere questo incarico. La coalizione che sosteneva il governo era formata dai cinque partiti maggiori esclusi i comunisti, e rimase poi famosa con il nome di “Pentapartito”.

Craxi interpretò la presidenza del Consiglio con un piglio nuovo e diverso rispetto al passato: durante il suo governo il numero di decreti aumentò considerevolmente, suscitando peraltro grandi polemiche. Se oggi è frequente che buona parte delle leggi provengano da proposte del governo, e che poi vengano trasformate in legge dal Parlamento, in quegli anni fu una novità. Craxi cercò anche di riformare le istituzioni, fallendo, e chiese più volte di modificare le regole sul voto segreto per mettere al riparo la sua maggioranza dai cosiddetti “franchi tiratori” (modifica che arrivò soltanto nel 1988, quando Craxi non era più al governo). Il suo fu, per certi versi, un modello accentratore e “presidenziale” che anticipò molto la tendenza dei decenni successivi, sia da parte del centrodestra che del centrosinistra.

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Craxi e papa Giovanni Paolo II al Quirinale con Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica, 18 gennaio 1986 (Felici/Farabolafoto via ANSA)

In politica estera Craxi confermò l’appartenenza al blocco occidentale e proseguì il tradizionale europeismo che aveva caratterizzato l’Italia fino a quel momento. Questa tendenza si era già palesata nel 1979 con la questione dei missili Cruise, che gli Stati Uniti volevano installare in Europa per rispondere a un ammodernamento dell’arsenale sovietico: la Germania ne aveva già fatti installare alcuni, mentre inglesi e francesi, forti della loro dotazione nucleare, non erano alternative percorribili. Lo stallo fu risolto dall’assenso di Craxi e del suo partito, su richiesta del democristiano Francesco Cossiga, allora presidente del Consiglio.

L’evento che però influenzò di più il giudizio sulla politica estera di Craxi, e uno dei più citati soprattutto dai suoi apologeti, è la crisi di Sigonella. L’episodio avvenne il 10 ottobre 1985, a seguito del dirottamento di una nave da crociera italiana, la “Achille Lauro”, da parte di quattro militanti radicali palestinesi. Nel dirottamento fu ucciso e gettato in mare un turista americano disabile, e per questo motivo il presidente Ronald Reagan decise di intervenire nonostante nel frattempo il governo italiano fosse riuscito a mediare con i dirottatori grazie all’intervento del leader palestinese Arafat. Mentre i quattro venivano trasportati su un Boeing egiziano, due aerei militari americani, modello C-141, si affiancarono al Boeing. Reagan a quel punto chiamò Craxi e gli chiese il permesso di atterrare all’aeroporto militare di Sigonella, in Sicilia. Subito dopo l’atterraggio un gruppo di Carabinieri circondò il Boeing, mentre dai C-141 scese un gruppo di soldati della Delta Force, una forza speciale dell’esercito americano, che circondò a sua volta i Carabinieri: i due schieramenti erano uno di fronte all’altro, in cerchio e armati.

Dopo un breve scambio tra i rispettivi vertici militari nessuno cedette, e allora Reagan telefonò di nuovo a Craxi annunciando di voler chiedere l’estradizione per i responsabili della morte del turista americano. Craxi rifiutò, spiegando che i reati erano stati commessi in acque internazionali e su una nave italiana, e perciò «dovevano essere configurati come atti criminosi perpetrati in territorio italiano».

«Non volarono parole grosse, semmai parole ferme», avrebbe commentato tempo dopo Craxi in un’intervista al programma Mixer di Giovanni Minoli. Alla fine furono gli Stati Uniti a cedere: sia i quattro dirottatori che i due mediatori furono trasferiti a Roma, e la crisi rientrò.

La politica economica dei governi Craxi non ha aneddoti altrettanto memorabili, ma conseguì comunque qualche successo. Uno di questi fu la lotta all’inflazione, uno dei problemi maggiori dell’economia italiana di quegli anni. Si riuscì a ottenere buoni risultati in parte grazie al decreto che tagliava la cosiddetta “scala mobile”, con cui si disinnescò la spirale dell’inflazione: la “scala mobile” era un sistema per cui gli stipendi erano indicizzati automaticamente all’aumento dei prezzi, cioè all’inflazione; in sostanza, quando i prezzi aumentavano, aumentavano anche i salari (il che portava però a un nuovo aumento dei prezzi, lasciando invariato il potere d’acquisto).

Questa riforma di Craxi, benché concordata con i sindacati, fu criticata duramente dal PCI e causò un’intensa polemica. Poco dopo l’introduzione del decreto, al congresso socialista di Verona nel 1984, avvenne il famoso episodio dei fischi a Berlinguer: il segretario comunista era ospite con una delegazione del suo partito, e al suo ingresso fu accolto con fischi e grida dai partecipanti. Craxi commentò il comportamento della platea prima dispiacendosi della mancanza di ospitalità (in un modo che oggi suonerebbe alieno alla nostra politica), ma poi attribuendogli un significato politico: «So bene che non ci si indirizzava a una persona, ma a una politica. […] E se i fischi erano un segnale politico, che manifestava contro questa politica, io non mi posso unire a questi fischi solo perché non so fischiare», disse, causando un boato di approvazione.

Lo scontro sul taglio della “scala mobile” si risolse perché il PCI fece campagna per un referendum abrogativo, che però non passò: il decreto del governo rimase in vigore. Su altri fronti, come deficit e debito pubblico, il governo Craxi e in generale i governi degli anni Ottanta non ottennero altrettanti successi: tra il 1980 e il 1990 il rapporto debito/PIL passò dal 55 per cento al 95 per cento, mentre il deficit rimase quasi sempre al di sopra del 10 per cento del PIL (per avere una misura pensiamo alla famosa “regola del 3 per cento”, cioè la quota massima di deficit introdotta dal trattato di Maastricht nel 1992).

La fine
Dopo la caduta del suo secondo governo, nel 1987, Craxi non avrebbe più ricoperto incarichi istituzionali e si concentrò soprattutto a mantenere le posizioni di potere che il PSI si era guadagnato. Del resto, i suoi avversari erano molti: innanzitutto il segretario della DC Ciriaco De Mita, espressione della sinistra democristiana e da sempre ostile verso i socialisti, e poi una parte della stampa, in particolare La Repubblica di Eugenio Scalfari, sempre molto critico nei confronti della gestione del potere di Craxi e dei suoi. Per arginare De Mita, Craxi adottò una tattica piuttosto efficace: si alleò con i suoi avversari interni, in particolare con Andreotti e Forlani, formando intorno al 1989 quello che fu definito dai giornali “il patto del CAF” (dalle loro iniziali).

Diversi storici, tra cui Musella, hanno sottolineato come in quegli anni la percezione del PSI cominciò a cambiare: da partito riformista e attento ai cambiamenti della società, passò a essere visto come un partito organico al sistema di potere. Craxi, in particolare, non ebbe la lungimiranza di prevedere il rigetto collettivo verso la politica che stava per arrivare insieme alle prime inchieste giudiziarie di “Mani Pulite”, sul disinvolto uso delle tangenti che facevano il suo partito e la Democrazia Cristiana; anzi, mantenne sempre lo stesso atteggiamento e rimase convinto fino all’ultimo di poter riprendere in mano la situazione, talvolta esprimendosi con una certa arroganza. Quando nel 1991 ci fu il referendum abrogativo per ridurre le preferenze di voto da 3 a 1, gran parte dei politici si dichiararono contrari, e Craxi invitò gli elettori ad andare al mare (era una domenica di giugno). Invece quel referendum si caricò di significati politici che andavano ben oltre a ciò che il quesito proponeva, e passò con il 95 per cento di “sì”.

La fase discendente della lunga parabola di Craxi si consumò in pochi anni. Nel febbraio del 1992 venne arrestato Mario Chiesa, socialista e presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano. Craxi lo definì incautamente un «mariuolo» qualsiasi, che non rappresentava il PSI milanese. Alle elezioni di aprile persero consensi tutti i partiti maggiori, compreso il Partito Democratico della Sinistra appena nato dallo scioglimento del PCI, mentre la Lega Lombarda prese quasi il 9 per cento. Nella società cresceva l’aspettativa sulle inchieste per corruzione avviate dalla procura di Milano, che si stavano estendendo sempre di più ed erano amplificate enormemente dalla costante copertura mediatica: i pubblici ministeri si accorsero presto – con metodi di indagine spregiudicati, aggressivi e tuttora oggetto di un grande dibattito – di avere davanti un sistema corruttivo ampio e che non riguardava solo la politica. L’allora magistrato Antonio Di Pietro, nel descrivere i finanziamenti illeciti ai partiti, parlò di «dazione ambientale»: in pratica era un sistema talmente rodato e automatico che gli inquirenti facevano fatica a distinguere se si trattasse di imprenditori corruttori o politici concussori (la concussione è quel reato commesso da chi, abusando della propria posizione, si fa dare o si fa promettere per sé o per altri denaro o altre tipologie di vantaggi).

In tutto questo Craxi, coerentemente con il suo carattere, fu uno dei pochi a esporsi. Alla Camera, durante la cerimonia di giuramento del governo Amato del 3 luglio 1992, pronunciò uno dei discorsi più visti e citati di quel periodo, denunciando praticamente tutto il Parlamento compreso se stesso:

«E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro»

Secondo la visione di Craxi, che da lì in avanti avrebbe ammesso i finanziamenti illeciti ma respinto le accuse di corruzione per arricchimento personale, il problema era politico e in quanto tale necessitava di una soluzione politica, non giudiziaria: la politica e la vita dei partiti – di quei partiti – costavano molto, e quei fondi venivano reperiti in metodi illeciti da tutti (Craxi accusò tra gli altri il Partito Comunista di aver ricevuto per decenni parte dei suoi fondi dall’Unione Sovietica, come ormai acclarato). Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993 Craxi ricevette una serie di avvisi di garanzia. Il 29 aprile 1993 la Camera respinse quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro di lui, causando una notevole indignazione che portò al famoso episodio del lancio delle monetine, il 30 aprile, quando sotto alla residenza romana di Craxi, l’hotel Raphael a un passo da piazza Navona, si radunò un gruppo di manifestanti piuttosto agitati. Craxi uscì comunque dall’albergo per entrare in macchina, in qualche modo affrontandoli, e loro lanciarono oggetti e monete. Alcuni tenevano alta una banconota da mille lire e cantavano «Bettino vuoi pure queste?».

Nel 1993 Craxi fu costretto a dimettersi dalla segreteria del partito. Quello fu anche l’anno di inizio del processo più importante nell’ambito delle inchieste di “Mani Pulite”, cioè il processo Enimont, in cui l’unico imputato era Sergio Cusani, fondatore di una società finanziaria e accusato di aver fatto da intermediario nel versamento di una tangente da 150 miliardi di lire. In questo processo furono ascoltati quasi tutti i maggiori dirigenti politici dell’epoca come testimoni e imputati in reati connessi, tra cui Forlani, Craxi, Gianni De Michelis e il repubblicano Giorgio La Malfa. Anche in questa occasione, Craxi diede la sua testimonianza sicuro di sé, denunciando il ruolo dei partiti di opposizione e il fatto che tutto il sistema politico era a conoscenza dei meccanismi corruttivi. Alcune udienze del processo furono trasmesse in diretta televisiva, e venne definito dai giornali «il padre di tutti i processi», o anche «il processo alla Prima Repubblica».

Nel 1994 Craxi non fu ricandidato e con l’inizio della nuova legislatura, il 15 aprile, cadde la sua immunità parlamentare. Già il 5 maggio uscì dall’Italia e cercò rifugio in Francia, dal presidente e amico François Mitterrand, che però non poté garantirgli protezione. Andò allora in Tunisia, dove possedeva una casa e dove aveva un altro amico, il presidente Ben Ali, che gli garantì di non concedere mai l’estradizione all’Italia. Da lì Craxi continuò a seguire e commentare il processo che andava avanti e in generale le vicende politiche italiane, scrivendo lettere aperte, dando interviste e convincendosi del fatto che i magistrati di “Mani Pulite” fossero mossi da qualcuno più grande di loro, tra cui gli Stati Uniti, ancora offesi da come aveva gestito la crisi di Sigonella. Mentre si trovava lì ricevette due condanne, confermate dalla Cassazione, per finanziamento illecito e corruzione.

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Silvio Berlusconi, che era legato da un rapporto di amicizia con Craxi, ai suoi funerali nella cattedrale di Tunisi (ALESSANDRO BIANCHI/ANSA/PAL)

Negli anni passati in Tunisia, raccontati peraltro dal film Hammamet, l’unico politico italiano che lo andò a trovare fu Cossiga, il 19 dicembre 1999, muovendosi su un aereo di linea e lasciando a Roma la sua scorta di ex presidente della Repubblica. Esattamente un mese dopo Craxi morì, a causa delle complicazioni del diabete di cui soffriva da anni e di un tumore. L’allora governo guidato da Massimo D’Alema offrì alla famiglia la possibilità di fare un funerale di Stato, ma la proposta venne rifiutata e ancora oggi Craxi è seppellito nel cimitero cattolico di Hammamet.