Prima dell’inciucio

E delle larghe intese: si chiamò "compromesso storico", lo inventò Berlinguer, e Filippo Ceccarelli racconta come fu scelto quel nome

A demonstrator holds flag with a portrait of Enrico Berlinguer, a historic leader of Italian left-wing during a march to protest against Silvio Berlusconi's government called by the left-wing Democratic Party (PD) on December 11, 2010 in Rome. Berlusconi faces a knife-edge confidence vote in both houses of parliament on December 13 that could trigger his downfall or see the resilient Italian leader bounce back once again. AFP PHOTO / TIZIANA FABI (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)
A demonstrator holds flag with a portrait of Enrico Berlinguer, a historic leader of Italian left-wing during a march to protest against Silvio Berlusconi's government called by the left-wing Democratic Party (PD) on December 11, 2010 in Rome. Berlusconi faces a knife-edge confidence vote in both houses of parliament on December 13 that could trigger his downfall or see the resilient Italian leader bounce back once again. AFP PHOTO / TIZIANA FABI (Photo credit should read TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

Da quando i partiti politici hanno cominciato a fare compromessi, si è iniziato a cercare nomi adatti per chiamare quei compromessi, che ne spiegassero il senso e limitassero le accuse di “tradimento” da parte dei militanti più integralisti: questi ultimi però, assieme con i mezzi di informazione, si sono da tempo impadroniti di quei battesimi, come nel caso dell'”inciucio”, nel 1995, il nome affibbiato al presunto accordo fra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi (sebbene la parola avesse in origine un altro significato, cioè quello di «pettegolezzo», che però fu distorto da un giornalista di Repubblica durante un’intervista allo stesso D’Alema). Ancora su Repubblica oggi Filippo Ceccarelli racconta invece di quando – prima dell’inciucio e delle larghe intese – fu Enrico Berlinguer a trovare un termine adatto a spiegare un nuovo corso “trattativista” del PCI, in un contesto geopolitico e storico particolare: il “compromesso storico”,  che a suo dire era un complicato ma necessario avvicinamento politico alla Democrazia Cristiana, al fine di intendere la rivoluzione comunista come «un processo interno allo sviluppo della democrazia».

A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su Rinascita tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire, di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.
Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.
Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.

(Continua a leggere sul sito della deputata PD Manuela Ghizzoni)

nfoto: TIZIANA FABI/AFP/Getty Images