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  • Martedì 7 gennaio 2020

Gli Stati Uniti non hanno annunciato il ritiro dall’Iraq

Nonostante quanto scritto in una lettera del Dipartimento della Difesa circolata lunedì sera, che pare fosse solo una bozza diffusa per errore

La sera di lunedì 6 gennaio diverse agenzie di stampa internazionali hanno pubblicato una lettera del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti in cui veniva annunciato il ritiro delle truppe americane dall’Iraq, in seguito al voto con cui il giorno prima il parlamento iracheno aveva approvato una mozione a favore dell’espulsione di tutti i soldati statunitensi e i militari della coalizione internazionale anti-ISIS presenti sul territorio iracheno, a causa dell’uccisione di Qassem Suleimani. Poco dopo, però, il governo e l’esercito statunitense hanno smentito che sia stato deciso o annunciato un ritiro, e hanno detto che la lettera in questione era una bozza che non avrebbe dovuto essere diffusa.

«Nel rispetto della sovranità della Repubblica dell’Iraq e come richiesto dal Parlamento e dal premier iracheni, la CJTF-OIR (la task force internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico) riposizionerà le proprie forze nel corso dei prossimi giorni e settimane per preparare il ritiro», si legge nella lettera, che porta in calce il nome – ma non la firma – del generale William H. Seely, a capo delle operazioni militari in Iraq, ed è diretta ad Abdul Amir, vice capo delle operazioni militari congiunte. La lettera prosegue con dettagli sulle modalità con cui avverrà il ritiro, spiegando che potrebbe esserci un aumento del traffico aereo nei prossimi giorni e che per questo il comando militare cercherà di svolgere le operazioni di notte, per limitare i disagi.

Dopo la diffusione della lettera, la sua autenticità è stata confermata sia da fonti statunitensi che irachene, ma il segretario della Difesa degli Stati Uniti Mark Esper ha detto di non saperne niente. «Non c’è stata nessuna decisione di lasciare l’Iraq. Non so cosa sia quella lettera, stiamo cercando di capire da dove arrivi, cosa sia, ma non c’è stata alcuna decisione di lasciare l’Iraq. Punto», ha detto durante una conferenza stampa al Pentagono.

Successivamente Mark Milley, capo di stato maggiore di tutte le principali forze armate statunitensi, il rango militare più alto negli Stati Uniti, ha spiegato che la lettera è stata un errore, che era una bozza non firmata e che non doveva essere diffusa. «Doveva essere inviata ad alcuni militari iracheni per coordinare gli spostamenti aerei. Ma è passata di mano in mano, fino a diventare pubblica».

La lettera, secondo Milley, serviva ad avvertire le autorità militari irachene dell’incremento delle operazioni di movimento delle truppe americane nel paese nei prossimi giorni, e non un ritiro. Milley ha detto che la lettera è stata scritta male, e che non andava resa pubblica. Il Washington Post ha spiegato che le operazioni a cui si fa riferimento nella lettera riguarderebbero alcune truppe americane che verranno riposizionate dopo aver terminato un periodo di addestramento. Secondo un corrispondente di BBC, invece, il riposizionamento a cui si fa riferimento nella lettera riguarda i miliari che si trovano nella cosiddetta “Zona verde” di Baghdad, l’area della capitale dell’Iraq con gli edifici governativi e le ambasciate straniere.

Cosa era successo prima

Domenica il parlamento iracheno ha votato una risoluzione non vincolante per chiedere al governo di terminare l’accordo con cui più di quattro anni fa gli Stati Uniti avevano accettato di mandare i loro soldati in Iraq per combattere contro lo Stato Islamico (o ISIS): in altre parole, si è espresso per l’espulsione dall’Iraq dei militari stranieri (non solo americani) presenti sul territorio iracheno.

Durante la seduta parlamentare, a cui non hanno partecipato i parlamentari sunniti e curdi, contrari alla risoluzione, ha parlato anche il primo ministro iracheno, Adil Abdul Mahdi, che ha usato parole molto dure contro l’uccisione di Suleimani, che aveva già definito in precedenza una «violazione della sovranità nazionale». La decisione definitiva sull’espulsione dei militari americani dall’Iraq dovrà prenderla lo stesso Mahdi, che ha legittimità limitata visto che si era dimesso a causa delle proteste antigovernative in corso da settimane: per il momento non è chiaro cosa succederà, o quali saranno i tempi di un eventuale ritiro.

La questione dibattuta domenica è particolarmente importante: non solo perché un’eventuale espulsione delle truppe americane dall’Iraq sarebbe un’umiliazione per Trump, ma anche perché potrebbe indebolire in maniera significativa la guerra contro l’ISIS, gruppo che da diversi mesi sta cercando di riorganizzarsi dopo essere stato sconfitto sia in Siria che in Iraq.

Poco prima del voto al parlamento iracheno, l’esercito americano aveva già annunciato la sospensione delle operazioni contro l’ISIS, per concentrarsi nel difendere i propri soldati presenti in Iraq da eventuali ritorsioni iraniane. Poco dopo il voto, Trump ha minacciato l’Iraq che, in caso di espulsione delle truppe americane, il suo governo avrebbe imposto sanzioni al paese (suo alleato) e lo avrebbe costretto a pagare «miliardi di dollari» per le spese sostenute dagli Stati Uniti nella costruzione di una «base aerea estremamente costosa» in Iraq.