Com’è andato il reddito di cittadinanza

A distanza di quasi un anno si può dire che sia nato con alcuni «macroscopici vizi d’origine», scrive Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera

(ANSA / CIRO FUSCO)
(ANSA / CIRO FUSCO)

Sul Corriere della Sera di oggi, il politologo Maurizio Ferrera ha provato a fare un bilancio sull’efficacia del cosiddetto “reddito di cittadinanza”, la misura di contrasto alla povertà e inserimento nel mercato del lavoro voluta dal primo governo di Giuseppe Conte e mantenuta dal secondo, a distanza di circa un anno dalla sua introduzione. Ferrera sostiene che abbia avuto il merito di avere «dotato il welfare italiano dell’ultimo tassello mancante, cioè la garanzia di un reddito minimo a chi è privo di risorse», ma che sia stata avviata con tre grossi difetti, che riguardano la sua ampiezza, i soldi dell’assegno base e l’inserimento lavorativo.

Il reddito di cittadinanza si appresta a celebrare il suo primo compleanno. È stata una riforma importante, che ha dotato il welfare italiano dell’ultimo tassello mancante: la garanzia di un reddito minimo a chi è privo di risorse sufficienti per far fronte ai bisogni della vita quotidiana.

L’Unione europea aveva esortato i Paesi membri a dotarsi di questa misura già nel 1993. L’Italia è stata l’ultima a uniformarsi. Partire in ritardo aggrava i problemi, ma può anche fornire un’opportunità: quella di imparare dall’esperienza altrui. Purtroppo il governo giallo-verde non lo ha fatto. E, inspiegabilmente, ha deciso di ignorare anche la sperimentazione già in corso in Italia, quella del reddito di inclusione (REI). La riforma è così nata con alcuni macroscopici vizi d’origine, che un minimo di preparazione e attenzione avrebbero potuto facilmente evitare.

Il reddito di cittadinanza (RdC) è stato innanzitutto sovraccaricato di funzioni.

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