«Tutta colpa degli economisti»

Secondo un libro che ha fatto discutere, se la nostra economia ristagna e le democrazie sono in crisi la colpa è di un gruppo di studiosi sempre più influente negli ultimi decenni

di Davide Maria De Luca

(AP Photo/Gregorio Borgia)
(AP Photo/Gregorio Borgia)

Nella vecchia Unione Sovietica gli economisti non erano molto popolari. La dottrina politica ufficiale del partito, il marxismo-leninismo, aveva già fornito tutte le risposte ritenute necessarie per creare prosperità e giustizia sociale: non c’era bisogno di scienziati che offrissero altre spiegazioni. «I politici davano gli ordini e agli economisti era concesso di trovare ragioni per cui quegli ordini erano da considerarsi molto intelligenti», ha scritto Francis Spufford, nel suo romanzo sull’economia sovietica L’ultima fiaba russa.

Curiosamente anche al di qua della Cortina di ferro, nel cosiddetto “mondo libero”, la situazione era abbastanza simile. Per tutto il primo quarto di secolo dopo la fine della guerra gli economisti erano considerati una categoria da tenere a distanza di sicurezza dalle leve del potere. Negli anni Cinquanta, il capo della FED, la banca centrale americana, diceva di tenere gli economisti «nello scantinato», mentre accanto a lui nel potente consiglio direttivo sedevano banchieri, avvocati e persino un allevatore di maiali dell’Iowa. Però nemmeno un economista.

Gli economisti erano “calcolatori umani” che a volte potevano essere utili, ma che non potevano certo prendere decisioni in autonomia. Nel suo famoso discorso di commiato, il presidente americano Dwight Eisenhower mise in guardia i suoi concittadini dal rischio di barattare la leadership politica e morale del paese con una «élite tecnico-scientifica», una pericolosa classe di tecnocrati senz’anima. Negli stessi anni, quando chiedevano al cancelliere socialista austriaco Bruno Kreisky le ragioni della spettacolare crescita del suo paese, lui rispondeva: «Me lo spiego con la nostra attenzione per le esportazioni. I nostri economisti, ad esempio, li abbiamo esportati tutti».

La situazione cambiò radicalmente a partire dalla fine degli anni Sessanta e poi più ancora nel decennio successivo, quando per gli economisti iniziò una sorta di età dell’oro. Divennero influenti ed ascoltati consiglieri dei governi, opinionisti e commentatori sui giornali e in televisione, a volte ministri e capi di grandi conglomerati pubblici. Fino alla Grande crisi finanziaria, gli economisti – o almeno, un’importante fetta della categoria – sono stati enormemente influenti in tantissimi ambiti diversi. Secondo Binyamin Appelbaum, il principale commentatore economico del New York Times, dare loro le chiavi della nostra “macchina politica” si è rivelata però una scelta disastrosa.

Questa è la tesi che Appelbaum elabora nel suo ultimo e discusso libro intitolato The Economists’ Hour, “L’ora degli economisti”, che ha riassunto in un articolo con un titolo decisamente esplicito: “La colpa del casino in cui ci troviamo è degli economisti“. Appelbaum sostiene che molti dei problemi che viviamo oggi, dal pessimo stato in cui versano le nostre democrazie fino alla stagnazione economica, siano causati almeno in parte dalla visione erronea e dogmatica imposta dagli economisti dalla fine degli anni Sessanta in poi.

Appelbaum racconta che dopo i primi 25 anni del dopoguerra le macchine statali erano divenute così complicate che il ceto politico, formato soprattutto da avvocati che le avevano gestite fino alla generazione precedente, non era più sufficiente. C’era bisogno di figure nuove, con competenze tecniche all’altezza della nuova sfida.

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I candidati naturali per riempire il vuoto erano gli economisti, che furono rapidamente cooptati in ruoli dirigenziali e, quasi subito, si trovarono di fronte una situazione apparentemente critica. Gli anni Settanta furono un decennio di grave crisi: la crescita economica languiva e l’inflazione sembrava fuori controllo. In più, le tasse erano altissime, i sindacati potenti e i lavoratori protetti: alla nuova generazione di economisti tutte queste cose non piacevano per nulla. Le nostre economie, disse uno dei nuovi economisti arrivati in posizioni di potere, «hanno bisogno di più milionari e più bancarotte». E così, scrive Appelbaum:

Nei quattro decenni tra il 1969 e il 2008, gli economisti ebbero un ruolo di primo piano del tagliare le tasse ai ricchi e ridurre gli investimenti pubblici. Supervisionarono la deregolamentazione di importanti settori economici, compresi trasporti e comunicazione. Tramutarono le grandi società in moderni eroi, difesero il loro potere sempre più illimitato, demonizzarono i sindacati e si opposero alle leggi sul salario minimo. Arrivarono fino al punto di dare un valore monetario alla vita umana – sono circa 10 milioni di dollari nel 2019 – per decidere se valeva la pena introdurre nuove regole per tutelarla o se le nuove regole rischiavano di causare una perdita di valore.

I risultati di questa trasformazione furono particolarmente evidenti nel mondo anglosassone. Nel resto d’Europa la lunga tradizione socialdemocratica ne moderò gli aspetti più estremi, ma persino in Italia il nuovo clima produsse i suoi effetti: dall’abolizione della “scala mobile“, al taglio delle tasse ai più ricchi degli anni Ottanta, passando per la liberalizzazione del lavoro e la privatizzazione e deregolamentazione bancaria degli anni Novanta e dei primi anni Duemila.

Il consenso su queste ricette fu trasversale. Destra e sinistra collaborarono agli stessi obiettivi: ridurre il ruolo dello stato nell’economia, tagliare le tasse ai ricchi, indebolire i sindacati. I governi del socialista Bettino Craxi, ad esempio, precedettero sotto molti aspetti quelli del leader laburista Tony Blair nel Regno Unito, che venne ripreso a sua volta dal leader dei DS Massimo D’Alema e dal cancelliere tedesco socialdemocratico Gerhard Schröder.

Secondo Appelbaum, però, questa rivoluzione ha finito con l’andare troppo oltre. Dopo un primo periodo in cui queste ricette sembrarono funzionare e produrre risultati desiderabili (contenimento dell’inflazione e crescita economica, anche se al prezzo di un aumento della disoccupazione) il meccanismo ha poi iniziato a incepparsi quasi ovunque. La crescita è divenuta anemica, se non si è addirittura tramutata in stagnazione, e la finanza deregolamentata ha iniziato a produrre una bolla dopo l’altra le cui conseguenze, spesso, si sono rovesciate sull’economia reale. Nel frattempo ci si accorgeva che le diseguaglianze stavano esplodendo e che le stesse stavano corrodendo la coesione sociale delle nostre democrazie.

Tra i segnali più inquietanti, Appelbaum segnala il fatto che l’aspettativa di vita media negli Stati Uniti ha iniziato a calare, mentre in alcuni paesi europei, compresa l’Italia, ha smesso di aumentare come in passato. Una regola generale che si applica a parecchi paesi è che negli ultimi 30 anni i più ricchi hanno visto la loro aspettativa di vita crescere, i più poveri l’hanno vista calare. Persino in Italia, con il suo sistema sanitario nazionale universale, permangono e in alcuni casi si sono accentuate disuguaglianze nella tutela della salute. Come nota tra gli altri il rapporto del Forum Diseguaglianze Diversità, la regione con la più bassa mortalità infantile, la Sardegna, ha un tasso che è circa quattro volte più basso rispetto al Molise, la regione con il tasso più alto.

Il libro e l’articolo di Appelbaum gli hanno ovviamente attirato moltissime critiche (gli economisti non sono famosi per essere i più pazienti tra gli accademici). Le più severe sono quelle arrivate dagli economisti “neoliberisti”, il gruppo più a destra che ancora oggi incarna le idee di riduzione dell’intervento pubblico, pro-business e anti-sindacali che Appelbaum critica nel suo libro.

Secondo questa scuola di pensiero, i problemi elencati da Appelbaum o non sono veri problemi, oppure sono causati non dalle loro ricette, ma dal fatto che quelle ricette non sono state applicate abbastanza. Dal loro punto di vista, lo stato impone ancora troppe regole e si immischia ancora troppo con la vita delle persone e, soprattutto, con gli affari delle imprese (scuola, sanità e servizi pubblici dovrebbero, per gran parte, semplicemente cessare di essere pubblici). Inoltre, sostengono, i sindacati hanno ancora troppo potere e licenziare i lavoratori è ancora troppo costoso e complicato (o, come si dice con un eufemismo, “il mercato del lavoro è ancora troppo rigido”).

Dall’inizio della crisi, però, queste voci si sono fatte sempre meno numerose. Dopo una crisi finanziaria causata in buona parte dalla deregolamentazione finanziaria le cui conseguenze, in termini di licenziamenti e impoverimento generale, sono state pagate in massima parte dai comuni cittadini, l’idea di fare altri sacrifici e di dare altro potere alle imprese non è più seducente come un tempo.

Molto più numerosi sono stati coloro che hanno criticato Appelbaum per aver semplificato troppo il quadro (un’accusa più giustificata per quanto riguarda il breve articolo pubblicato sul New York Times, meno rispetto al suo corposo e apprezzato libro). Nella sua recensione, l’Economist scrive che Appelbaum mette gli economisti al centro della storia, ma ricorda che questi erano spesso «soltanto dei complici di più ampi movimenti conservatori intenzionati a ridurre il potere dello stato».

Secondo altri critici, il prototipo di “economista neoliberale” che Appelbaum descrive è una sorta di nemico di paglia costruito ad arte. Se personaggi come quelli descritti da Appelbaum si potevano realmente trovare tra i commentatori politici e gli economisti più interessati alle apparizioni mediatiche che allo studio rigoroso, nell’accademia vera e propria la situazione è sempre stata più sfumata. Le facoltà di economia sono state a lungo dipinte come fortini neoliberali, ma questa era una descrizione di comodo, sia per i neoliberali (a cui faceva gioco farsi dipingere come “mainstream”), sia ai loro più determinati oppositori (che ne ottenevano l’immagine di solitari pensatori controcorrente).

Nella sua recensione di The Economists’ Hour, Justin Fox, un altro esperto giornalista economico, ha scritto che, effettivamente, Appelbaum riconosce come all’epoca ci fosse varietà nel pensiero economico e che, a leggere bene, il suo libro non è così dogmatico come potrebbe apparire. Fox ricorda inoltre che c’erano all’opera vaste correnti sociali e culturali e che è riduttivo attribuire soltanto a un pugno di economisti la responsabilità per il mondo che abbiamo davanti. Ma è vero però, prosegue, che a partire dagli anni Settanta gli economisti che in tutto il cosiddetto mondo sviluppato acquistarono un potere e un’influenza senza precedenti «appartenevano tutti alla stessa sottile striscia dello spettro ideologico».