Si fa presto a dire diritto all’oblio

Domani la Corte di giustizia dell'Unione Europea deciderà su due casi che potrebbero complicare ulteriormente la vita ai giornali e a Google: i precedenti non sono incoraggianti

Uno dei palazzi della Corte di giustizia dell'Unione Europea, Lussemburgo (Arne Immanuel B'nsch/picture-alliance/dpa/AP Images)
Uno dei palazzi della Corte di giustizia dell'Unione Europea, Lussemburgo (Arne Immanuel B'nsch/picture-alliance/dpa/AP Images)

La Corte di giustizia dell’Unione Europea deciderà martedì su due casi molto importanti legati al cosiddetto “diritto all’oblio”, cioè la possibilità di rendere meno accessibili o nascondere online – dopo un certo periodo di tempo – notizie vere ma che possano danneggiare l’onore o le attività personali e professionali di una persona, come i suoi precedenti giudiziari. Le nuove sentenze potrebbero modificare e integrare le decisioni assunte dalla Corte cinque anni fa, che avevano portato a grandi polemiche per i rischi che comportavano sulla tutela della libertà di stampa: soprattutto online, dove la gestione del diritto all’oblio è più importante ma anche più complicata. La decisione della Corte potrebbe inoltre offrire nuovi spunti legali per un controverso caso giudiziario italiano, che nel 2018 ha portato alla chiusura di un sito d’informazione in seguito a una sentenza della Corte di Cassazione proprio sul diritto all’oblio. Ma andiamo con ordine.

Il diritto all’oblio e Internet
Il diritto all’oblio si applica in numerosi ambiti, ma è diventato centrale soprattutto per Internet e i siti d’informazione, perché i loro archivi digitali sono più facili da consultare rispetto a quelli cartacei e rimangono accessibili nel tempo. I loro contenuti sono inoltre indicizzati dai motori di ricerca, Google su tutti, che contribuiscono a renderli ancora più visibili. Questo fa sì che quando si cercano informazioni su Google su una persona si possa rapidamente arrivare, per esempio, a vecchi articoli di giornale nei quali si raccontano fatti di cronaca e problemi con la giustizia che possono essere ritenuti sconvenienti dall’interessato.

Accogliendo un ricorso presentato dalla Spagna, nel 2014 la Corte di giustizia dell’Unione Europea stabilì che i cittadini europei hanno il diritto di richiedere che alcune informazioni siano rimosse se queste sono “non adatte, irrilevanti o non più rilevanti”. I giudici hanno sancito che se cercando qualcosa sul proprio conto su Internet si trovi un contenuto segnalato nella pagina dei risultati di un motore di ricerca che si ritenga non rilevante, deve essere possibile chiederne la “deindicizzazione” alla società che gestisce lo stesso motore di ricerca, ovvero la rimozione dalla lista dei risultati forniti. Se il motore di ricerca non rispetta la richiesta, il cittadino ha il diritto di presentare ricorso presso le autorità competenti per avviare un procedimento giudiziario.

Detta in parole più semplici, se trovo una cosa su Google che rimanda a un vecchio caso di cronaca che mi ha coinvolto, posso chiedere a Google che quel contenuto non compaia più nella sua pagina dei risultati quando qualcuno cerca il mio nome. Questo non vuol dire che l’articolo sarà cancellato dal sito che lo ha pubblicato, ma semplicemente che nessuno potrà arrivarci attraverso Google. Google ha il dovere di esaminare la richiesta e può rifiutarla, se ritiene che l’interesse pubblico per l’articolo superi l’interesse del singolo che vorrebbe invece farlo rimuovere. Il singolo può in quel caso chiedere a un giudice terzo di occuparsene. Molte volte invece Google accetta la richiesta, come da tempo possono constatare gli utenti che trovano al fondo delle pagine dei risultati una nota che segnala appunto che alcune pagine potrebbero essere state rimosse dalla lista.

Diritto di cronaca e libertà di stampa
Negli ultimi cinque anni, Google ha ricevuto oltre 850mila distinte richieste di deindicizzazione, che hanno interessato link verso 3,3 milioni di siti. La società ha deciso volta per volta in autonomia, cercando di rispettare al meglio le indicazioni della Corte (secondo molto esperti inevitabilmente molto vaghe) e affrontando le numerose cause intentate da chi si è visto rifiutare la richiesta di rimozione. La mole di richieste ha confermato i timori di molti osservatori sul rischio che le regole indicate dalla Corte sul diritto all’oblio online potessero essere sfruttate in modo arbitrario per chiedere la rimozione di contenuti limitando la libertà di stampa e il diritto di cronaca.

Quella previsione si è concretizzata negli ultimi anni, e ha portato a un aumento delle richieste dirette agli editori perché rimuovano interi articoli. Quando Google rifiuta una richiesta di deindicizzazione, avviene spesso che gli interessati si mettano in contatto con i gestori dei siti chiedendo che provvedano loro a escludere i contenuti dai motori di ricerca, minacciando altrimenti cause legali. Talvolta le richieste si spingono oltre, chiedendo la cancellazione stessa dei contenuti dagli archivi. In mancanza di un quadro normativo chiaro e con la prospettiva di dover sostenere spese legali o seccanti e minacciose insistenze da parte degli avvocati, spesso i siti – soprattutto i più piccoli o i meno motivati sul diritto di cronaca – tagliano corto e accolgono le richieste, limitando la loro funzione informativa e di fatto censurandosi da soli, a torto o a ragione. È vero anche che le conseguenze di vicende giudiziarie spesso non gravi (o addirittura concluse con assoluzioni) possono durare molto a lungo e avere ricadute eccessive nei confronti degli interessati e della loro vita.

Le nuove decisioni della Corte di giustizia
Attualmente la rimozione dei link dalle pagine dei risultati dei motori di ricerca interessa unicamente le ricerche svolte in Europa. Questo significa che un risultato non visibile in un paese europeo può essere invece visibile al di fuori dell’Unione. Google, per esempio, usa diversi sistemi per determinare da dove si stia svolgendo la ricerca e su quale versione del suo motore di ricerca (google.it o google.com, per intenderci) e sulla base di queste informazioni fornisce una pagina dei risultati contenente o meno il link verso una pagina per la quale è prevalso il diritto all’oblio. Su richiesta di chiarimenti dal Consiglio di stato francese, la Corte dovrà decidere se invece quel contenuto debba sempre essere nascosto, anche quando la ricerca venga svolta al di fuori dell’Unione Europea.

Google ha manifestato la propria contrarietà a questa evenienza, sostenendo che costituirebbe una limitazione ingiustificata per tutti gli altri utenti non europei. La sua posizione è condivisa da molte altre aziende tecnologiche e, stando alle dichiarazioni circolate finora, sembra improbabile che la Corte decida per una deindicizzazione su scala globale. Una seconda causa coinvolge il Garante per la privacy francese, che ha rifiutato la richiesta presentata da quattro persone per obbligare Google a rimuovere link verso alcuni contenuti che li riguardano, che si ottengono quando si cercano i loro nomi sul motore di ricerca.

Il caso di PrimaDaNoi
È molto complicato stabilire quando un fatto di cronaca, raccontato da un giornale, perda la propria rilevanza e di conseguenza possa essere dannoso per l’onore degli interessati. Lo stesso ordinamento italiano non offre informazioni molto chiare sul tema, con indicazioni generiche che hanno portato negli anni a sentenze contraddittorie, come hanno sperimentato i gestori di un sito d’informazione locale in Abruzzo.

Fondato nel 2005 da Alessandro Biancardi e la moglie Alessandra Lotti, PrimaDaNoi aveva riscosso in pochi anni un buon successo. Il giornale, regolarmente registrato come testata giornalistica, si occupava principalmente di cronaca locale, ed era diventato famoso per alcune inchieste sulle amministrazioni locali e su casi giudiziari. Nel marzo del 2008 PrimaDaNoi aveva pubblicato un breve articolo sull’alterco tra due fratelli settantenni nel loro ristorante: la discussione si era fatta violenta e uno dei due aveva ferito l’altro con un coltello da pesce. Erano intervenute le forze dell’ordine, che avevano arrestato i due fratelli (che avevano ricevuto ferite non gravi) e alcuni altri membri della famiglia.

Nel 2010 uno dei due fratelli fece causa a PrimaDaNoi, sostenendo che in base al diritto all’oblio l’articolo su quel fatto di cronaca avvenuto appena due anni prima dovesse essere rimosso. Biancardi rifiutò, ritenendo di avere riportato accuratamente la notizia citando i rapporti di polizia. Il fratello contestatore sostenne comunque che l’articolo violasse la sua privacy, perché era facilmente reperibile online tramite i motori di ricerca. Inoltre, se si cercavano informazioni sul suo ristorante, tra i primi risultati offerti da Google c’erano notizie sulla violenta rissa con il fratello, cosa che avrebbe danneggiato gli affari della sua attività.

Nel 2013 il giudice unico del Tribunale di Chieti diede ragione al fratello, condannando PrimaDaNoi a pagare una multa da 10mila euro (più il risarcimento per le spese legali e i danni) nonostante nel 2011 Biancardi avesse comunque provveduto a rimuovere l’articolo dai motori di ricerca. La sentenza comportò la cancellazione dell’articolo dall’archivio e il pignoramento del motorino di Biancardi, che non aveva il denaro sufficiente per pagare la sanzione.

Biancardi portò avanti la causa fino in Cassazione, sostenendo che l’articolo non avesse leso il diritto alla privacy degli interessati, perché i loro dati erano stati trattati unicamente per scopi giornalistici e quindi senza necessità di specifiche autorizzazioni (come del resto avviene con qualsiasi articolo su un fatto di cronaca). La stessa richiesta per il diritto all’oblio, secondo i legali di Biancardi, non poteva essere applicata considerato che il procedimento penale per il caso dell’accoltellamento era ancora in corso.

Nonostante le obiezioni presentate da Biancardi, nel 2016 i giudici di Cassazione confermarono la sentenza di Chieti, che di fatto sanciva la cancellazione completa dell’articolo dall’archivio di PrimaDaNoi, e non solo dall’indice di Google e degli altri motori di ricerca. Secondo i giudici, i due anni e mezzo trascorsi dal fatto alla richiesta di rimozione della sua cronaca erano sufficienti per ritenere “illecito” il trattamento dei dati personali nell’articolo e superato il suo interesse pubblico:

La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico.
Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale.

La sentenza della Cassazione sul caso di Biancardi fece molto discutere, soprattutto tra i giuristi e gli esperti di privacy online, perché di fatto stabiliva regole poco coerenti con le leggi e le norme che regolano le attività dei giornali e più in generale dell’informazione. I giudici indicarono in appena due anni e mezzo un tempo sufficiente per il venir meno dell’interesse pubblico di una notizia, peraltro su basi piuttosto arbitrarie. La loro sentenza indicò di fatto che il diritto di cronaca non può valere per sempre e che col tempo prevale quello alla privacy degli interessati, ma soprattutto che un articolo online – corretto e fattuale – produce comunque un danno per il quale può essere chiesto un risarcimento per il semplice fatto di essere raggiungibile online.

Il caso di Biancardi fu raccontato dal giornale britannico Guardian nel 2016 e di recente è stato ripreso dal New York Times, per raccontare ai lettori un esempio degli effetti del diritto all’oblio alla vigilia delle nuove decisioni che assumerà la Corte di giustizia dell’Unione Europea.

PrimaDaNoi ha chiuso alla fine del 2018, dopo aver ricevuto negli anni precedenti oltre 240 richieste legate alla privacy, 40 delle quali sono finite in tribunale. Per evitare di indebitarsi ulteriormente, dopo aver accumulato debiti per 50mila euro tra spese legali e multe, Biancardi ha iniziato ad accogliere buona parte delle richieste di rimozione degli articoli. Un tentativo di rilanciare PrimaDaNoi con una raccolta fondi alla fine dello scorso anno non ha portato agli esiti sperati, determinando la chiusura definitiva del giornale.

Biancardi ha presentato ricorso presso la Corte di giustizia dell’Unione Europea per la vicenda dell’accoltellamento tra fratelli nel ristorante vicino a Pescara, ma non è ancora chiaro se il suo caso sarà in futuro accolto ed esaminato dai giudici. Nel frattempo, le decisioni che saranno assunte domani potrebbero dare qualche elemento in più ai casi come il suo.