Renzi se ne va dal PD?

Se ne parla da mesi, se non da anni, ma ora apertamente e fuori dai retroscena dei giornali

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Negli ultimi giorni molti nel Partito Democratico e tra gli osservatori di cose politiche sono giunti alla conclusione che l’uscita dal partito di Matteo Renzi e dei parlamentari a lui più vicini – uno scenario evocato da mesi, se non da anni – non è più questione di “se” ma di “quando”, e sarebbe piuttosto vicina. Renzi avrebbe infatti deciso di creare un nuovo partito di centro in grado di attirare i voti di partiti come +Europa e Forza Italia ma allo stesso tempo di essere determinante per l’attuale governo, in grado quindi di ottenerne concessioni e incarichi e di orientarne la politica.

La scissione dei renziani viene ipotizzata da anni, alimentata spesso da un atteggiamento ambiguo dello stesso Renzi. Negli ultimi giorni però, l’ipotesi ha acquistato sempre più sostanza. Questo fine settimana, per esempio, sia il sindaco di Firenze Dario Nardella che l’ex ministra Maria Elena Boschi hanno attaccato la segreteria del PD per non aver «nominato toscani» all’interno del governo (un modo obliquo per dire che alla fazione renziana, in gran parte formata da toscani, non era stato dato ciò che le spettava).

Lo stesso Renzi ha parlato della scissione in un’intervista pubblicata domenica sul Corriere Fiorentino: «Le chiacchiere stanno a zero. Di politica nazionale parleremo alla Leopolda e sarò chiaro come mai in passato». Il che significa, secondo l’unanime interpretazione, che il grande annuncio di uscita dal PD sarà fatto ad ottobre, durante l’incontro politico annuale della sua corrente interna al partito. In un’altra intervista il deputato Ettore Rosato è stato ancora più esplicito e ha definito l’eventuale scissione una «separazione consensuale», che sarà comunque decisa definitivamente proprio nel corso della Leopolda.

Oltre a Rosato, Renzi sarebbe seguito da diversi altri deputati e senatori. Di certo ci sarebbe il deputato del PD e sottosegretario del governo Ivan Scalfarotto, che da un anno sta lavorando all’organizzazione di “comitati civici” che sarebbero l’embrione territoriale del nuovo partito. Lo stesso Scalfarotto nel weekend ha detto che «si possono fare cose bellissime insieme, ma non è necessario abitare nella stessa casa», rispetto ai rapporti col PD, e che i lavori per creare un gruppo parlamentare autonomo sono «in un certo stato di avanzamento». Farebbe parte di questo gruppo anche Roberto Giachetti, che ha partecipato all’ultimo congresso del partito con una mozione che rappresentava l’eredità politica di Renzi e che dovrebbe portare i suoi comitati “Sempre avanti”, e oggi ha annunciato che lascerà intanto la direzione del PD. I giornali scrivono che nel nuovo partito entreranno anche la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova e la viceministra dell’Istruzione Anna Ascani.

Tra i parlamentari si fanno i nomi di Maria Elena Boschi, del capo dei comitati “Sempre avanti” Luciano Nobili, del deputato e membro della commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi, dell’economista Luigi Marattin e del deputato ed ex concorrente del Grande Fratello Mattia Mor. È presto per individuare quali amministratori locali parteciperanno alla scissione, ma sembra quasi certo che lo farà il sindaco di Firenze Dario Nardella, mentre il sindaco di Bergamo Giorgio Gori al momento sembra critico nei confronti dell’operazione e ha detto che preferisce restare nel PD. Dovrebbero restare nel PD anche i parlamentari che fanno riferimento all’ex ministro dello Sport Luca Lotti (da molti anni amico personale di Renzi e da sempre contrario alla scissione) e alla corrente Base Riformista, guidata dall’attuale ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Secondo i giornali, la scissione sarà compiuta in modo graduale. Prima, forse già nei prossimi giorni scrivono alcuni, si formeranno i nuovi gruppi parlamentari, staccandosi dal PD. Successivamente il nuovo partito o movimento parteciperà alle elezioni politiche, mentre le elezioni locali non sono tra gli obiettivi immediati. Circolano anche dei nomi possibili per questo partito, ovviamente da prendere con grande cautela: “Italia del sì” o “Italia della crescita”, che si collegherebbero al Sì al referendum costituzionale del 2016 e alla volontà di far ripartire la crescita economica del paese.

Il passaggio più delicato di questa eventuale operazione sarà senza dubbio il primo: la formazione di gruppi autonomi alla Camera e al Senato, se dovesse fallire, rischierebbe di mettere in dubbio l’intera operazione. Secondo le stime che circolano in questi giorni, Renzi potrebbe essere seguito nella sua scissione da circa 20 deputati e una decina di senatori, cioè un numero pericolosamente vicino al minimo necessario per formare gruppi autonomi senza dover andare nel Gruppo Misto (secondo il Corriere della Sera, gli scissionisti sarebbero solo 16 alla Camera e 6 al Senato).

Al Senato c’è poi il problema aggiuntivo del regolamento approvato nella scorsa legislatura proprio per evitare scissioni come questa, che impedisce di formare nuovi gruppi che non siano associati a un simbolo o una lista che abbiano partecipato alle precedenti elezioni. Per questo i renziani starebbero pensando di utilizzare nel nuovo gruppo il nome e i simboli del PSI di Riccardo Nencini (qui un nostro vecchio articolo sull’affascinante storia di questo leader di partito).

Diversi renziani interpellati dai giornali sostengono che il “reclutamento” di deputati e senatori sarà mantenuto al minimo, così da evitare di far decadere l’attuale capogruppo al Senato Andrea Marcucci, un renziano che rimarrebbe dentro il PD anche dopo l’ipotizzata scissione. Che sia frutto di strategia o di scarso interesse per la scissione, se il numero di questi scissionisti (una trentina in tutto) venisse confermato, la scissione dei renziani porterebbe alla nascita di un gruppo grande circa la metà di quello che lasciò il partito nel 2017 per fondare Articolo 1 – MPD, composto all’inizio da 44 deputati e 16 senatori (all’epoca i parlamentari del PD erano stati scelti in buona parte dall’ex segretario Pier Luigi Bersani, che avviò la scissione, come gli attuali sono stati scelti in buona parte dall’ex segretario Matteo Renzi).

La possibilità sempre più concreta di una scissione ha spinto i principali dirigenti del PD a intervenire, almeno a parole, per cercare di scongiurarla. Il segretario Nicola Zingaretti ha definito l’eventuale scissione «un errore gravissimo che il paese non capirebbe». Il ministro della Cultura e capo della delegazione del PD al governo, Dario Franceschini, ex alleato di Renzi, gli ha rivolto un appello particolarmente caloroso, dicendo che «il PD è la casa di tutti, e la casa tua e la casa nostra». I giornali riportano anche trattative più concrete, tra le quali ci sarebbe l’offerta della presidenza del partito a un esponente della corrente di Renzi, per esempio Maria Elena Boschi.

Non è chiaro se questi tentativi di riconciliazione possano portare a qualcosa o se la decisione di uscire dal partito sia oramai presa. Manca un mese alla Leopolda, la festa in cui dovrebbe essere annunciata la scissione, e un cambio di piani in poche settimane sembra improbabile. Di sicuro quello che accadrà dopo sarà complesso, per il partito di Renzi. Il “centro” a cui mira Renzi è oggi una posizione politica stretta, affollata e competitiva, ricca di pretendenti ma povera di voti, e contesa tra formazioni diverse come +Europa, il nuovo partito di Carlo Calenda e un pezzo di Forza Italia. Un recente sondaggio attribuisce al nuovo partito di Renzi il 5 per cento delle intenzioni di voto, mentre Renzi continua a essere uno dei leader politici nazionali con il gradimento più basso.