Alcuni farmaci tumorali sbagliano mira

Eppure funzionano lo stesso, a dimostrazione che alcuni loro meccanismi non ci sono ancora chiari e che potremmo fare molto meglio, spiega una nuova ricerca

(Cold Spring Harbor Laboratory)
(Cold Spring Harbor Laboratory)

Secondo una ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Science Translational Medicine, diversi farmaci per trattare i tumori mancano gli obiettivi molecolari per i quali sono stati sviluppati, ma nonostante questo funzionano ugualmente e mantengono una relativa efficacia. La scoperta è avvenuta un po’ per caso e potrebbe aiutare i ricercatori a ripensare i principi attivi cui stanno lavorando, svolgendo più analisi sugli effetti delle loro molecole nelle cellule tumorali.

Fino a circa 20 anni fa i farmaci più utilizzati contro i tumori agivano in modo piuttosto ampio e brutale: uccidevano tutte le cellule con un rapido ritmo di crescita, a prescindere dalla loro natura tumorale o meno, un po’ come un bombardamento a tappeto. Le cose sono cambiate da quando i ricercatori hanno trovato il modo di affinare la mira, in modo da colpire solamente le proteine prodotte dalle cellule tumorali e ritenute essenziali per la loro sopravvivenza. Il Glivec, uno dei primi farmaci per trattare la leucemia con questo nuovo bombardamento “intelligente”, si rivelò piuttosto efficace e aprì la strada alla sperimentazione di numerosi altri farmaci mirati contro specifiche proteine.

Con il Glivec sembrava si fosse aperta una nuova era per la cura del cancro, ma le cose sono andate diversamente. Secondo una recente analisi sui farmaci antitumorali, solo il 3 per cento dei medicinali contro il cancro sottoposti a test clinici tra il 2000 e il 2015 ha superato tutte le fasi di sperimentazione, diventando disponibile per la cura sui pazienti. È una percentuale molto bassa se confrontata con le aspettative portate dalle nuove tecniche, senza contare il costo enorme, sostenuto da istituti di ricerca e aziende farmaceutiche, per prodotti che si rivelano fallimentari e non commerciabili.

Jason Sheltzer, biologo presso il Cold Spring Harbor Laboratory (New York, Stati Uniti), nella sua nuova ricerca scrive insieme ai suoi colleghi di avere trovato una delle possibili spiegazioni al tasso così ridotto di successo dei farmaci antitumorali: hanno una buona vista, ma mirano a qualcosa di sbagliato. Sheltzer e i suoi se ne sono accorti per caso, mentre erano al lavoro per sviluppare un nuovo test per la diagnosi del cancro al seno.

Da tempo i ricercatori sanno che le cellule di alcuni tipi di tumori al seno producono alti livelli di MELK, una proteina che secondo diversi studi sarebbe essenziale per favorire la moltiplicazione delle cellule tumorali. In linea di massima, più alti sono i livelli di MELK più si riducono le possibilità di sopravvivenza per le pazienti. Per questo motivo, Sheltzer e colleghi stavano lavorando a un farmaco per colpire MELK e fermare la moltiplicazione delle cellule tumorali.

Per farlo, i ricercatori avevano pensato di utilizzare CRISPR-Cas9, il sistema sempre più diffuso e promettente per modificare il DNA, in modo da eliminare le istruzioni che riguardano il gene responsabile della presenza di MELK nelle cellule tumorali. Una volta eliminato il gene, il gruppo di ricerca ha notato con sua sorpresa che le cellule continuavano a crescere e moltiplicarsi come se tutto fosse come prima. Inoltre, somministrando il farmaco con MELK come obiettivo, si è accorto che aveva ugualmente effetto, anche in assenza del gene.

Incuriositi dal risultato, Sheltzer e colleghi hanno provato a riprodurre la stessa condizione con altri dieci farmaci sperimentali, sempre progettati per inibire specifiche proteine. I test hanno condotto a risultati simili a quelli ottenuti con il farmaco contro il tumore al seno, notando che i farmaci erano ugualmente efficaci anche in assenza del target per cui erano stati sviluppati.

I ricercatori si sono allora chiesti come mai farmaci diversi avessero in comunque questa caratteristica, e hanno concluso che il principale indiziato è l’RNA interference (di solito abbreviato RNAi), un meccanismo che viene sfruttato per far sì che pezzi di RNA interferiscano con i geni, in modo da impedirne l’espressione (l’RNA è la molecola coinvolta nei processi di codifica e decodifica del DNA, e nell’espressione genica, il processo con il quale le informazioni contenute in un gene sono convertite in una macromolecola, di solito una proteina).

RNAi è un sistema un po’ più datato e meno mirato rispetto a CRISPR-Cas9: è vero che consente di silenziare particolari geni, ma a volte può influire anche sull’attività di altri, in modi poco prevedibili. Numerosi farmaci attualmente in sperimentazione contro il cancro sono stati sviluppati partendo da RNAi e c’è quindi la possibilità che non siano così mirati come si pensava.

Sheltzer e colleghi hanno fatto quindi ulteriori test per verificare la loro ipotesi, con il farmaco sperimentale OTS964. In laboratorio, hanno applicato il principio attivo a colture di cellule tumorali dalle quali era stata rimossa la proteina obiettivo del farmaco. La maggior parte delle cellule è morta ugualmente, salvo alcune che sono rimaste attive.

Analizzando il DNA di queste ultime, i ricercatori hanno scoperto che contenevano tutte una mutazione nello stesso gene, che contiene le informazioni per far produrre alle cellule una proteina che si chiama CDK11B e che evidentemente è essenziale per la loro vita. Le cellule erano riuscite a sopravvivere proprio grazie a quella mutazione nel gene, sul quale il farmaco non poteva avere effetto essendo il gene lievemente diverso da quello per cui era stata progettata. L’esclusione del gene mutato ha portato alla morte delle cellule tumorali che erano sopravvissute, a conferma del fatto che la sua presenza fosse essenziale per il tumore.

Gli esperimenti e i risultati di Sheltzer stanno facendo discutere nella comunità scientifica e potrebbero rivelarsi preziosi, per migliorare i farmaci contro i tumori. Se da un lato è vero che buona parte dei test è stata condotta in laboratorio, quindi in condizioni diverse da quelle che coinvolgono pazienti, dall’altro il nuovo studio conferma i dubbi sulla precisione di RNAi e di conseguenza sui farmaci sperimentali sviluppati con quella tecnica.

La ricerca non mette comunque in dubbio il principio di usare le proteine come target dei farmaci contro i tumori. Suggerisce piuttosto che una maggiore attenzione alle mutazioni dei geni e un impiego di CRISPR-Cas9 potrebbero aiutare a comprendere meglio il funzionamento degli attuali principi attivi e lo sviluppo di quelli futuri per aumentare l’efficacia delle terapie contro i tumori.