«Video Saved the Radio Star»

Lo dice il Wall Street Journal raccontando il successo di film, serie e documentari che parlano di musica, arrivato perché sono cambiati sia i film che la musica

È un ottimo periodo per i film di musica. Negli ultimi anni stanno uscendo infatti film su concerti, musical (cioé film musicali in senso stretto) e, soprattutto, documentari musicali e film biografici su cantanti o gruppi. Non c’è un momento esatto in cui questo periodo è iniziato, ma di certo non è finito: qualche mese fa Rolling Stone parlò di una «età dell’oro dei documentari musicali», elencando decine di film e serie tv usciti o in uscita; più di recente il Wall Street Journal ha parlato della proliferazione e del generale successo di film «che girano intorno alla musica», in un articolo intitolato “Video Saved the Radio Star“, il cui titolo ribaltava quello della famosa canzone dei Buggles.

Tra i prodotti più noti che hanno fatto parlare di questa “età dell’oro”, ci sono in primo luogo i film documentari (e le serie) dei servizi di streaming. Netflix, per esempio, mette a disposizione – e in certi casi produce direttamente – decine di prodotti di questo tipo, compreso il recente documentario di Martin Scorsese su un tour del 1975 di Bob Dylan. Ci sono stati poi i film biografici musicali come Rocketman, su Elton John, e Bohemian Rhapsody, il film sui Queen che nel 2018 è stato tra i più visti al mondo e il più visto in Italia. Di recente è uscito anche il film Yesterday, ambientato in un universo in cui nessuno, tranne un ragazzo, sembra essere a conoscenza dell’esistenza dei Beatles e delle loro canzoni.


A fine mese uscirà Blinded by the Light – Travolto dalla musica, sulla grande passione di un ragazzo pachistano per Bruce Springsteen. A tutto questo vanno aggiunti i concerti trasmessi nei cinema e i documentari che, anziché arrivare su Netflix, sono pensati per il cinema: come Pavarotti, che è stato diretto da Ron Howard e che arriverà in Italia a ottobre.


All’elenco dei film su cose musicali di cui si parla o si parlerà vanno aggiunti il nuovo film sul Re Leone che uscirà il 21 agosto, il musical Cats e il film su Judy Garland che usciranno a Natale e la versione di West Side Story diretta da Steven Spielberg e prevista per il 2020. Sono poi sono in lavorazione un film su Amy Winehouse (dopo che già il documentario Amy vinse l’Oscar nel 2016), un film biografico su Aretha Franklin, uno su Bob Marley (e su di lui arriverà anche un film animato per bambini), uno su John Lennon e Yoko Ono e uno su Elvis Presley, diretto da Baz Luhrman.

Insomma, i film sulla musica e i musicisti sono molti e in genere vanno bene. Quelli che costano tanto, portano incassi ancora maggiori: Bohemian Rhapsody, che si stima sia costato 50 milioni di dollari, ha incassato quasi un miliardo di dollari. Molti altri – in particolare i documentari fatti di interviste e immagini d’archivio – costano poco e di solito piacciono. I servizi di streaming in genere non comunicano dati su quante persone guardano determinati film, ma il Wall Street Journal ha scritto citando una sua fonte dentro Netflix che «gli abbonati di Netflix mostrano un sempre maggiore interesse per film di questo tipo».

Perché qualcuno possa fare un film musicale di qualsiasi tipo serve però prima il permesso di chi controlla i diritti delle canzoni che saranno usate nei film, cioè le case discografiche. Il Wall Street Journal ha quindi parlato di come funziona tutto questo con Brian Monaco, responsabile marketing di Sony/ATV Music Publishing. Per prima cosa, Monaco ha spiegato che fino a qualche anno fa, diciamo prima dell’inizio di questa cosiddetta età dell’oro, a chiedere e ottenere le canzoni dei cantanti più famosi erano solo le grandi produzioni, per i loro film più importanti. Le cose sono cambiate quando sia nel mondo della musica che in quello dei contenuti audiovisivi è arrivato lo streaming: da un lato ha cambiato le modalità di guadagno per chi fa musica, dall’altro ha aumentato la quantità di contenuti e, scrive il Wall Street Journal, «moltiplicato le opportunità». Monaco ha detto che cinque anni fa la Sony faceva uno o due accordi all’anno per concedere i suoi diritti per fare film musicali (e quindi non solo per l’uso di una singola canzone in un film), quest’anno invece ne ha già chiusi tre e sta trattando per altri cinque.

Monaco ha spiegato che i diritti per una serie di canzoni da usare in un film possono costare 10mila dollari o 10 milioni di dollari, a seconda delle canzoni, dell’artista e dell’uso che intende farne il film. Le cose cambiano anche se il film sceglie di usare canzoni originali o cover fatte da altri artisti (come succede sempre più spesso nei trailer). Ha spiegato anche che si tratta di accordi di licenza upfront, in cui la casa di produzione paga cioè una certa somma all’inizio e la casa discografica non riceve nessuna percentuale sugli incassi del film.

Nonostante si parli di accordi upfront, Monaco ha detto che le case discografiche cercano sempre più di mettere mano ai progetti per i film, offrendo consigli e supporto e cercando di sviluppare campagne promozionali comuni, che vadano a beneficio sia del film che degli artisti le cui canzoni sono usate: «Pensiamo a quello che si può fare dopo che il documentario o il film biografico sarà uscito», ha detto. Nel caso di Bohemian Rhapsody si è trattato, per esempio, di organizzare un “Rhapsody Tour” dei Queen un mese dopo l’uscita del film, per cavalcarne il successo.

Ci sono anche case di produzione che scelgono di prodursi in maniera più o meno diretta e interna i film: come è successo con la Universal Music e il film su Pavarotti, prodotto da PolyGram Entertainment, una sussidiaria della Universal Music, che nel 2016 produsse il documentario The Beatles: Eight Days a Week, e che sta lavorando a documentari sui Bee Gees, sulle Go-Go’s e sulla casa discografica Motown. Pur essendo relativamente piccola, PolyGram Entertainment se lo può permettere perché, spiega il Wall Street Journal, i documentari musicali costano in media tra 1 e 5 milioni di dollari: una cifra bassa, per gli standard americani.


Collaborazioni e sinergie di questo tipo fanno parte di un settore in crescita per il marketing delle case discografiche: si chiama synch, da “sincronizzazioni”, e riguarda tutti quei casi in cui una canzone viene “attaccata” a un prodotto di altro tipo. Molti artisti e tutte le principali case discografiche hanno capito che è una fonte di guadagno sempre più importante e sul suo sito Sony/ATV scrive: «Abbiamo più di tre milioni di canzoni nel nostro catalogo, siamo certi che troverai quella giusta per la tua pubblicità, il tuo film, il tuo trailer, il tuo videogioco, il tuo programma tv o ogni altro tuo progetto che richieda una canzone».