La quarantena dell’Apollo 11

Quando tornarono dallo Spazio, i primi tre uomini ad andare sulla Luna furono isolati dal mondo per più di due settimane per non contagiare la Terra con inesistenti germi alieni

di Gianmarco Rizzo

I tre astronauti dell'Apollo 11 incontrano il presidente Richard Nixon durante la quarantena. (NASA)
I tre astronauti dell'Apollo 11 incontrano il presidente Richard Nixon durante la quarantena. (NASA)

Alle 6:50 (le 18:50 in Italia) del 24 luglio 1969 Neil Armstrong, Edwin Aldrin e Michael Collins ammararono con la loro navicella spaziale nell’oceano Pacifico dopo aver viaggiato per otto giorni sull’astronave Apollo per andare e tornare dalla Luna. Furono portati su una portaerei della Marina statunitense e trasferiti al centro spaziale di Houston, in Texas. Era così ufficialmente conclusa la missione Apollo 11, il progetto statunitense che cinquant’anni fa portò per la prima volta nella storia l’uomo sulla Luna. Ma l’esperienza dei tre astronauti non era finita: li aspettava la quarantena e il processo di riadattamento alla vita nell’atmosfera terrestre.

La quarantena fu imposta per paura che germi provenienti dalla Luna infettassero la Terra, durò 18 giorni (21 se si include il viaggio di ritorno) e si divise in due fasi: i tre giorni dall’ammaraggio all’arrivo a Houston e le due settimane di permanenza nella base NASA. Gli scienziati della NASA ritenevano molto improbabile l’ipotesi dell’esistenza di germi, ma nessuno volle prendersi la responsabilità di escluderla del tutto. È questa la ragione per cui Armstrong, Aldrin e Collins furono celebrati pubblicamente per la loro missione solo tre settimane dopo il rientro.

(NASA)

La prima fase di recupero in mare fu molto veloce. Quando la navicella colpì la superficie dell’oceano, a circa 1.500 chilometri dalle isole Hawaii e a 34 chilometri orari, un elicottero recuperò gli astronauti e li trasferì sulla portaerei Hornet. Il rumore dell’elicottero che volava molto basso tenne a distanza i numerosi squali che nuotavano nelle vicinanze. Tutta l’operazione avvenne in tre ore e tre minuti, più velocemente che nelle 18 simulazioni svolte nelle tre settimane precedenti. Sulla portaerei i tre astronauti incontrarono il presidente statunitense Richard Nixon, con cui poterono parlare solo per telefono da una parte all’altra di un vetro, perché erano già nella Struttura Mobile di Quarantena, una roulotte adattata per la necessità.

(NASA)

Il viaggio verso le Hawaii durò due giorni. All’arrivo al porto di Pearl Harbor il 26 luglio, gli astronauti – sempre isolati – furono accolti sul suolo statunitense per la prima volta dopo l’allunaggio da politici locali, alti ufficiali militari, danzatori di hula – la danza tipica dell’arcipelago – e almeno dodicimila hawaiani. La Struttura Mobile di Quarantena con gli astronauti all’interno fu caricata su un aereo C-141 e portata alla Ellington Air Force Base, una base dell’Aviazione statunitense vicino a Houston, dove arrivò all’alba del 27 luglio, tre giorni dopo l’ammaraggio.

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Alla base NASA di Houston c’era la struttura definitiva che li avrebbe ospitati per le restanti due settimane di quarantena. Atterrati, i tre astronauti lasciarono la roulotte in cui avevano vissuto per tre giorni ed entrarono nel Laboratorio di Ricevimento Lunare, una struttura da 15 milioni di dollari pensata per l’isolamento delle persone e degli oggetti tornati dalla Luna. In quarantena insieme a loro c’erano altre 14 persone tra medici che monitoravano le loro condizioni di salute, ingegneri e tecnici che cominciarono a studiare i campioni raccolti sulla Luna e assistenti vari addetti alle mansioni domestiche.

Durante la quarantena gli astronauti fecero anche diverse attività. Il loro impegno principale era registrare le loro testimonianze sull’allunaggio, in modo che le loro voci e le loro storie fossero archiviate. Nelle molte ore di tempo libero avevano un tavolo da ping-pong, una palestra per risvegliare la muscolatura impigrita dalla minore gravità fuori dall’atmosfera terrestre, e diversi film. Una delle domeniche in quarantena all’interno del laboratorio si organizzò una funzione religiosa di 15 minuti, presieduta dal cuoco, che faceva il diacono in una chiesa battista. Alla funzione partecipò Armstrong, mentre Aldrin e Collins rimasero nelle loro stanze a scrivere i verbali della missione. Uno era presbiteriano, l’altro episcopale.

La permanenza nel laboratorio durò due giorni meno del previsto, perché non erano emerse anomalie nelle ultime analisi del sangue, e sia gli astronauti sia le altre persone nel laboratorio erano stanche dell’isolamento e impazienti di tornare alla loro vita normale. Alle 21:05 del 10 agosto Armstrong, Aldrin e Collins uscirono dal Laboratorio di Ricevimento Lunare e la quarantena finì. I tre lasciarono la struttura con tre auto diverse e raggiunsero le loro famiglie.

Dopo due giorni di riposo, il 13 agosto 1969 i tre astronauti viaggiarono da una costa all’altra degli Stati Uniti per essere celebrati pubblicamente. La mattina furono a New York per una parata affollatissima di persone, il pomeriggio volarono a Chicago per una seconda parata, durante la quale venne concessa loro la cittadinanza onoraria, e la sera si spostarono a Los Angeles per una cena di stato. Durante la cena, alla quale parteciparono 1.440 persone tra cui i governatori di 44 stati e l’intera Corte Suprema, il presidente Nixon annunciò il conferimento agli astronauti della Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti. «Vi ringrazio per aver innalzato il nostro sguardo verso una nuova dimensione», disse Nixon, «il cielo non è più il limite».

Questo e gli altri articoli della sezione Come andammo sulla Luna sono un progetto del workshop di giornalismo 2019 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.

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