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  • Martedì 11 giugno 2019

Prima gli svizzeri

La storia di James Schwarzenbach, il leader politico di Zurigo che negli anni Sessanta cercò di cacciare gli italiani, è raccontata nel libro di Concetto Vecchio

Stazione ferroviaria svizzera: gli emigrati italiani tornano a casa per le feste pasquali, 1964 (Ansa)
Stazione ferroviaria svizzera: gli emigrati italiani tornano a casa per le feste pasquali, 1964 (Ansa)

Concetto Vecchio, giornalista di Repubblica 49enne che si occupa prevalentemente di politica, ha pubblicato per Feltrinelli un libro che racconta la storia dell’emigrazione in Svizzera dei suoi genitori dalla Sicilia – nel contesto dell’emigrazione italiana in Svizzera negli anni Sessanta – e dell’ascesa politica di James Schwarzenbach, intellettuale di Zurigo divenuto allora leader di un movimento di grande consenso contro gli italiani. Il libro, scritto in maniera molto scorrevole e coinvolgente, ricco di storie e ricostruzioni, si intitola Cacciateli!, con sottotitolo (un po’ abusato nella titolazione su temi simili) Quando i migranti eravamo noi.

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Lo scorso novembre sono tornato a Zurigo. Nei paraggi della Dufourstrasse mi sono fermato davanti a un chiosco e ho ordinato una Rivella. Non ne bevevo una da oltre trent’anni. La ragazza dietro al banco mi ha dato il resto e mi ha augurato buona giornata in schwizerdütsch, il dialetto locale. Era ancora la lingua che parlavo io, ferma alle parole del Novecento? Ne dubitavo. Le ho chiesto se sapeva dirmi come arrivare al Teatro dell’Opera. “Ma è lì,” ha risposto, puntando il dito oltre l’orizzonte del lago. Ho costeggiato a passo lento il Bellevue, mi sono accomodato sugli scalini del teatro e ho cominciato a osservare un gruppo di ragazzi dell’età dei miei figli seduti a semicerchio nella piazza squadrata.

A una donna con i capelli bianchi, che accanto a me leggeva la “Neue Zürcher Zeitung”, ho chiesto se l’usanza del Böögg era ancora sentita. “Ma certo,” ha esclamato allegra, sollevando per un momento lo sguardo dal giornale. Quindi ha iniziato a illustrarmi la storia del luogo, il Sechseläutenplatz, dove ogni anno, ad aprile, la tradizione vuole che si bruci un finto pupazzo di neve, il Böögg appunto, per dare festoso congedo all’inverno. “Prima gli esplode la testa e più bella sarà l’estate,” ha precisato la signora, e si è avventurata a elencarmi i tempi dei falò nelle ultime edizioni. L’ho interrotta con cortesia, non volevo più saperne del Böögg. “Lei è argoviese?” mi ha domandato. “Sono nato ad Aarau.” “Bel cantone, l’Argovia,” ha commentato.

Perché mi trovavo lì? Cosa stavo cercando?

Davanti ai ragazzi accovacciati, una giovane mamma ora dondolava una carrozzina. Potevo sentire quel che diceva. “Tesoro,” sussurrava melodiosa al figlio, in italiano. “Fai le ninne,” e col piede lo spingeva avanti e indietro.

Sentendosi osservata mi ha sorriso. Ho pensato a mia madre. La vedo con il foulard stretto attorno al volto, che mi tiene per mano mentre avanziamo sulla Hauptstrasse di Lenzburg. Stiamo rientrando a casa dall’asilo della Missione cattolica italiana, e davanti ad ogni cartellone pubblicitario si ferma per decifrare le lettere insieme a me. Io ripeto le parole ad alta voce e lei mi dice “bravo!”. A volte, di fronte a una frase letta tutta d’un fiato, esulto in maniera scomposta, al punto che qualche vecchia di passaggio si gira. “Psst!” fa ridendo mia madre. “Non facciamoci riconoscere dagli svizzerazzi, sennò arriva Schwarzenbach!”

“Siamo e-mi-gra-ti,” sillabava mio padre. A lungo m’interrogai sul significato di quella parola. “Stranieri,” mi rispose una volta, accendendosi una Muratti. Ho davanti agli occhi l’immagine di lui col lupetto granata che fuma seduto in cucina, una sera dei primi anni settanta. “Non voglio essere straniero,” ribatto. “Voglio chiamarmi anch’io Roland, Thomas o Markus, e invece mi avete messo un nome brutto, che ho solo io.” “Konzetto!” alza la voce la maestra Schneider, quando mi richiama all’ordine. “È un bel nome, invece,” sostiene mia madre e prova ad assorbire il mio scoramento. “Il tuo onomastico cade nel giorno dell’Immacolata, in Italia è festa, si festeggia la Madonna, e poi anche i tuoi nonni si chiamavano entrambi così.”

A casa mamma e papà parlano in siciliano, una lingua segreta che nemmeno gli svizzeri che sanno l’italiano sono in grado di decifrare. I miei si cullano in quei suoni. Il dialetto mitiga l’estraneità, è il guscio in cui rifugiarsi. E quando, la domenica sera, papà telefona alla nonna Nina in Sicilia, la chiama “vossia”.

“James Schwarzenbach!” penso, mentre rifaccio il giro della piazza. Un’epifania. Avevo mai chiesto ai miei chi fosse veramente, l’uomo che loro ogni tanto evocavano in quella stagione lontana, come un fantasma di cui avere paura? Non ricordo. Tiro fuori lo smartphone e digito il suo nome su Google. I risultati mi reindirizzano a un documentario della tv svizzera. Schwarzenbach è morto nell’ottobre del 1994. Nella prima scena, girata un giorno d’estate nel camposanto di St. Moritz, si scorge la tomba: “Comendador de la orden de Isabel la Católica” ha voluto che ci scrivessero sopra. Col dito sposto avanti il cursore e al minuto 12 mi soffermo rapito davanti a uno spezzone in bianco e nero. Mostra la sala di un teatro piena di fumo e di umori. È il 1970, l’anno in cui sono nato io. Schwarzenbach troneggia al tavolo dei relatori. Ha l’aspetto di un Lord, rifletto d’istinto, mentre lo inquadrano da vicino. Un professore che si distende sulla sedia con consapevolezza. Sento la sua voce felpata. Rivolto alle persone che gli sono sedute accanto dice: “Ma perché parlate sempre e solo degli stranieri, e invece non vi occupate con la stessa energia dei nostri lavoratori?”. Scandisce le parole con studiata teatralità, facendo mulinare la mano destra. La telecamera riprende la platea. In tanti applaudono freneticamente. “Prima gli svizzeri,” mormoro tra me e me, lì, nel sole autunnale di Zurigo.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano