Un’altra comicità è possibile?

Per il pugno di comici che da anni prova a portare la “stand up comedy” in Italia, Netflix potrebbe essere la svolta

di Stefano Vizio

(un'immagine dallo spettacolo di Edoardo Ferrario)
(un'immagine dallo spettacolo di Edoardo Ferrario)

«E poi l’altro problema della vita di un comico in Italia è che siamo tutti comici qua», dice Francesco De Carlo all’inizio di Cose di questo mondo, il suo nuovo spettacolo comico uscito da poche settimane su Netflix. De Carlo comincia il suo monologo scherzando sui motivi che lo hanno portato a fare spesso il comico fuori dall’Italia, ma lui e qualche decina di altri colleghi stanno provando da alcuni anni a rendere popolare anche qui una forma di comicità diversa e tipicamente anglosassone, girando per i pochi locali che ospitano spettacoli di questo tipo e, da qualche settimana, affacciandosi a un mercato internazionale con i propri spettacoli distribuiti in streaming in tutto il mondo.

Quello di De Carlo è il secondo dei tre speciali di stand up comedy in uscita su Netflix: prima era arrivato quello di Edoardo Ferrario, Temi caldi, e a giorni sarà pubblicato quello di Saverio Raimondo, Il satiro parlante. Da alcuni anni Netflix domina la distribuzione degli spettacoli comici nel mondo: il suo catalogo ne contiene moltissimi e, almeno nei paesi anglosassoni, uno speciale sul servizio di streaming è diventato una tappa fondamentale di ogni carriera di successo, nonché, in termini di visibilità, quello che fino a un po’ di tempo fa era un’ospitata in un talk show serale. Recentemente Netflix sta investendo anche sui comici non anglofoni: tra gli addetti ai lavori, l’opinione è che questo possa cambiare davvero il mercato della comicità in Italia, finora in larga parte legato a un cabaret televisivo ormai vissuto come logoro, ripetitivo e poco permeabile alle novità.

Fare la stand up comedy in Italia non è facile: prima di tutto perché non è facile spiegare che cosa sia, “la stand up comedy”, e in che senso Ferrario, De Carlo e Raimondo facciano una cosa diversa da quella che fa da un paio di decenni Enrico Brignano, per fare un esempio, con successi imparagonabili. O da quella che facevano prima di lui Beppe Grillo, Roberto Benigni, Teo Teocoli e quasi tutti i più grandi e famosi comici italiani.

«La differenza è l’ambizione», spiega al Post Raimondo. «Brignano aspira a un teatro, io a un locale di musica dal vivo. La postura è molto diversa: in Italia è spesso teatrale, lo stand up comedian di solito è più musicale». Questa definizione convince anche Ferrario, secondo il quale la differenza tra il cabaret a cui è abituato il pubblico tradizionale e la stand up comedy è come quella tra swing e be bop: «è sempre jazz, ma suona diverso».

Essere più scientifici e rigorosi nella definizione è complicato: l’espressione stand up comedy non indica un genere di contenuti precisi, né uno stile omogeneo di esporli, e da tempo non definisce più nemmeno un movimento esclusivamente statunitense. È piuttosto, secondo molti, la “forma zero” della comicità: un microfono, un’asta, uno sgabello, e questo basta a definirla. Ma è fondamentale anche il luogo in cui vengono piazzati, l’asta del microfono e lo sgabello.

«La rinascita italiana della stand up si vede soprattutto nel live», spiega infatti Giulio D’Antona, co-fondatore di Aguilar, la casa di produzione dietro agli spettacoli di Ferrario, De Carlo e Raimondo. I locali e i contesti intimi sono parte integrante della stand up comedy, dei luoghi in cui nasce e dell’immaginario che l’accompagna: anche se ormai la maggior parte degli speciali su Netflix sono registrati in grossi teatri, più simili a quelli che riempie nei suoi tour Brignano. Secondo Raimondo, «non esiste stand up comedy se non c’è il luogo in cui farla, e il primo problema che abbiamo avuto è stato proprio questo».

Oggi alla Santeria di Milano, dove sono stati registrati tutti e tre gli speciali, c’è ogni mese uno spettacolo molto partecipato nel quale si esibiscono quattro o cinque comici per volta, spesso stranieri, e nel locale gemellato nella zona est di Milano viene organizzata periodicamente una serata di “microfoni aperti” per scovare talenti emergenti. Altri locali milanesi come il Ghe Pensi Mi offrono serate di comicità con cadenza settimanale, ma la scena della stand up è altrettanto vivace, se non di più, anche a Roma. Da lì arrivano De Carlo, Ferrario e Raimondo, che cominciarono più o meno una decina di anni fa animando le serate dell’Oppio Caffè, all’Esquilino.

Ovviamente i locali per la comicità ci sono sempre stati, perlomeno a Milano, e anzi erano molto più frequentati e rinomati di oggi. Dallo Zelig al Nebbia, certi nomi sono ancora circondati da un alone leggendario: come il Derby Club, forse il più famoso, dove negli anni Sessanta si esibivano artisti come Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Cochi e Renato. Quello però era cabaret, fatto di monologhi ma anche di canzoni, spezzoni teatrali e molto altro. Con gli anni Settanta arrivò una successiva ondata di comici, quella di Paolo Rossi, Diego Abatantuono, Enzo Iacchetti e molti altri, e l’offerta comica andò a definirsi sempre di più attorno al monologo parlato.

Per molti versi, quella era la stessa cosa che adesso chiamiamo stand up. «Oggi la intendiamo come un codice formale: normalmente il microfono ha il filo, loro in televisione la facevano con il microfono ad archetto. Ma l’archetto lo usa anche Ricky Gervais, e non diresti mai che non fa stand up», spiega D’Antona riferendosi a uno dei più noti comici inglesi degli ultimi vent’anni.

Nella maggior parte dei casi, però, il nuovo cabaret che andò definendosi negli anni Ottanta – e soprattutto quello che poi fu portato in tv da Zelig negli anni Novanta e Duemila – consisteva in una serie di comici che “facevano dei personaggi”. Sul palco, cioè, indossavano delle maschere, talvolta letteralmente, e fondavano il proprio umorismo sulla finzione, sull’esagerazione e sulla ripetizione di ossessiva delle stesse battute, i cosiddetti “tormentoni”, una cosa che nella stand up comedy non accade praticamente mai. «Quando si parla di questa cosa, c’è sempre chi dice: “ma come, e allora Tizio nel ’75?”» dice De Carlo. «Ma erano eccezioni, non c’era un movimento».

Sempre per il discorso della “forma zero” della comicità, invece, gli stand up comedian portano sul palco loro stessi: o meglio, lo fanno credere. Spesso sono personaggi anche i loro, ma il confine è più sfumato: non arrivano sul palco vestiti da panettieri o da operai, non interpretano nessuno se non se stessi o una versione da palcoscenico di se stessi (Woody Allen, che cominciò proprio come stand up comedian, dovette ripetere a lungo di non essere quello che mostrava nei suoi film). Questo non vuol dire che parlino letteralmente della loro vita: sul New York Times, una volta, il critico Jason Zinomam raccontò di essere rimasto deluso quando chiese a Louis CK a quale delle sue due figlie si riferisse un aneddoto che aveva raccontato pochi minuti prima sul palco, sentendosi rispondere «Me lo sono appena inventato».

Sebbene anche gli stand up comedian si fingano sul palco persone diverse, non ricorrono tanto a una maschera quanto «a un vestito che si indossa per presentarsi in società», spiega Raimondo. Tra i tre, lui è quello che si vede più spesso in televisione, dove tra le altre cose conduce un proprio programma sullo stile dei late night show di satira politica americani, in onda su Comedy Central, il canale di Sky che per primo ha portato una programmazione di stand up comedy in Italia. Per Raimondo, non proprio altissimo e con una voce particolarmente tagliente, la fortuna è stata anche essere un po’ un “personaggio” di suo, «un comico molto più riconoscibile come tale: io sono ridicolo, ed è una condanna dal punto di vista umano, ma una fortuna da quello professionale. La statura, la voce, un certo tipo di mimica. Queste cose fanno sì che sono più facilmente letto e assimilato come comico dal pubblico».


Quando anni fa De Carlo partecipò al laboratorio di Zelig per i comici emergenti, racconta al Post, portò un repertorio fatto in buona parte di battute di satira politica: gli proposero però di recitarle interpretando, per l’appunto, un personaggio. «Mi chiedevano di diventare il giovane che parlava ai politici. Anche se sei un monologhista, in Italia, nelle forme televisive cercano spesso di ricondurti a una macchietta, ai tormentoni». La pensa più o meno così anche Raimondo, secondo cui la televisione ha appiattito il cabaret per come era nato e ha portato a una «fossilizzazione dei temi, a una stereotipizzazione delle cose di cui si occupa la comicità».

Dai triti e ritriti sketch regionali sulle differenze tra Nord e Sud ai giochi di parole, dagli ennesimi racconti sulle gite all’IKEA fino alle battute sulle suocere rompiscatole, non è difficile trovare conferma della staticità dei temi della comicità televisiva italiana. Se il cabarettista ricorre a questi espedienti per parlare a un pubblico più grande e generalista possibile, la stand up comedy è avvantaggiata dal fatto che «è più il pubblico che viene da te e ti sceglie, e poi magari torna», spiega Ferrario. «Questo sviluppa una relazione molto più intima, che permette un rapporto più profondo e sincero con il proprio materiale: non devi parlare per forza della suocera stronza che mette d’accordo tutti, puoi anche dire che a te tua suocera sta simpatica».

In ogni caso, siamo ancora all’inizio: la scena della stand up comedy italiana è nata pochi anni fa e oggi «non ci sono tanti comici italiani pronti per uno speciale su Netflix», spiega D’Antona. Negli Stati Uniti, dove il genere esiste da diversi decenni e i locali di stand up comedy esistono praticamente in ogni città, è nota e molto raccontata l’importanza attribuita dai comici alla solidarietà tra colleghi, alla condivisione delle esperienze, all’osservazione e allo studio del lavoro altrui. Tutte cose che in Italia non sono finora state possibili, per assenza di una vera categoria e di un vero mercato: ma l’ambiente è cresciuto rapidamente negli ultimi anni, ed è probabile che la visibilità concessa dalle piattaforme di streaming contribuisca in maniera determinante alla maturazione del movimento.

Di conseguenza, spiega D’Antona, in Italia siamo più indietro anche su discorsi di grande attualità nella comicità americana, come l’inclusione delle donne e delle minoranze in un ambiente storicamente popolato in prevalenza da uomini come quello della stand up comedy. Scorrendo i video pubblicati su YouTube dal canale di Comedy Central Italia, e anche nelle programmazioni proposte dai locali, è ancora molto evidente una sproporzione tra gli uomini e le donne. Ma le stand up comedian italiane ci sono: Velia Lalli, Michela Giraud, Laura Formenti, Martina Catuzzi e Daniela Delle Foglie, per citare le più conosciute e apprezzate.

Nonostante Netflix distribuisca in tutto il mondo gli spettacoli dei comici non anglofoni, il piedistallo da cui partono i tre italiani è molto più modesto, e il pubblico di riferimento molto più limitato. Un comico italiano abituato a esibirsi in locali relativamente piccoli, con una platea selezionata e interessata, è improvvisamente proiettato di fronte a un pubblico molto più vario e trasversale con la distribuzione in streaming. Migliaia e migliaia di persone che spesso hanno come unico denominatore comune l’aver pagato un abbonamento mensile a Netflix. Questa necessità di essere trasversali, e di parlare a bolle differenti, De Carlo non la vive come una limitazione: «Pensare che la comicità sia destinata solo a persone che ne capiscono è un errore, se vogliamo, politico. Dovremmo avere l’umiltà, ma anche l’ambizione, di parlare a un pubblico più vasto».

Doversi rivolgere prevalentemente a un pubblico italiano non significa doversi adattare solo per quanto riguarda i contenuti, ma anche la forma. La questione se l’inglese – più breve, diretto, con uno slang comico più vario – sia una lingua intrinsecamente più divertente dell’italiano è spesso dibattuta nell’ambiente, ma secondo De Carlo il problema è ancora un altro, più a monte: «Loro ridono di più per sottrazione, noi per addizione. Se io faccio un’allusione in Inghilterra, loro apprezzano di più di l’esserla andati a completare. In Italia te la devo proprio spiattellare».

È in parte un discorso generazionale: YouTube prima, e i servizi di streaming poi, hanno abituato sempre più i giovani a un linguaggio comico diverso da quello televisivo, sia nei codici che nei temi. Dopo le difficoltà iniziali dovute a un pubblico talvolta poco disciplinato e consapevole, racconta Ferrario, lui e i colleghi con cui mosse i primi passi nella comicità dal vivo videro confermata la loro scommessa iniziale: «Se proponi qualcosa di originale, la gente ride: senza che ci sia bisogno di spiegare la differenza tra stand up comedy e cabaret».