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  • Domenica 14 aprile 2019

In Egitto controlla tutto Abdel Fattah al Sisi, persino le soap opera

«Non è Kim Jong-un o Saddam Hussein, ma sta spingendo l'Egitto verso quel tipo di regime»

Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi (AP Photo/Mulugeta Ayene )
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi (AP Photo/Mulugeta Ayene )

In Egitto in questo periodo dell’anno l’attenzione dell’industria televisiva è concentrata sulla produzione delle soap opera da trasmettere durante la cosiddetta “stagione televisiva del Ramadan”, quando le famiglie musulmane si ritrovano davanti alla tv per seguire le storie interpretate dai più popolari attori del paese.

Quest’anno la stagione del Ramadan, che come suggerisce il nome coincide con il Ramadan, cade a maggio, ma non è stata anticipata dal solito entusiasmo. Da diverso tempo, infatti, tra attori, registi e produttori circola un notevole pessimismo: il numero delle produzioni è stato dimezzato e molte persone del settore sono state lasciate a casa o costrette a fare cose molto diverse da quelle previste dai progetti originali a cui avevano scelto di lavorare. Come ha scritto Mada Masr, uno dei pochi giornali rimasti indipendenti in Egitto, la crisi non è dipesa da un momento difficile del settore della pubblicità, o dalla mancanza di idee originali, come era avvenuto in passato; è stata provocata da un’estesa azione del regime guidato dal presidente Abdel Fattah al Sisi, che negli ultimi mesi ha voluto imporre la sua volontà (e la sua censura) anche sulle soap opera.

Che il presidente al Sisi volesse rafforzare il proprio potere sull’industria culturale dell’Egitto non è una novità, ma la recente ingerenza del governo nel settore delle soap opera è stata interpretata come qualcosa di più: un passo ulteriore per ottenere un controllo senza precedenti, che non si era visto nemmeno nel lungo regime trentennale di Hosni Mubarak, presidente destituito a seguito delle cosiddette “primavere arabe”, nel 2011. Amy Hawthorne, analista dell’organizzazione no profit Project on Middle East Democracy (Washington), ha detto al New York Times che «al Sisi non è Kim Jong-un o Saddam Hussein, ma sta spingendo l’Egitto verso quel tipo di regime».

Da sinistra a destra: Ewan McGregor, Tom Mison, Amr Waked e Emily Blunt a Londra. Waked è un attore egiziano che vive in Europa: ha lavorato tra gli altri nel film “Syriana” e di recente è stato condannato a otto anni di carcere per avere criticato al Sisi (AP Photo/Joel Ryan)

Il caso delle soap opera è esemplare, anche se non è l’unico e nemmeno il più rilevante. Fino a tre anni fa, ha scritto Mada Masr, le serie tv diffuse in Egitto erano più di 30 a stagione, facevano riferimento a diverse case di produzione e parlavano di vari temi. Quella delle soap opera era un’industria piuttosto stabile, competitiva e in grado di esportare prodotti anche in altri paesi arabi.

A partire dal giugno 2017, però, il regime di al Sisi cominciò a esprimere insofferenza nei confronti delle soap opera diffuse nella stagione del Ramadan: istituì una commissione apposita che doveva occuparsi di monitorare l’operato dell’industria televisiva drammatica e ordinò agli autori di scrivere solo certi tipi di sceneggiature. Allo stesso tempo lo Stato assunse il controllo dei canali satellitari privati, mettendoli sotto il controllo della EMG, società appartenente a un fondo di investimenti legato ai servizi di intelligence egiziani. Gli effetti di queste nuove politiche diventarono evidenti quando furono diffuse le serie della stagione televisiva del Ramadan, tra loro molto simili e con la forte presenza positiva di poliziotti e militari.

Un regista egiziano che ha voluto rimanere anonimo ha raccontato al New York Times che lo scorso inverno il regime ha diffuso le “linee guida” da seguire nelle sceneggiature delle soap opera: tra le altre cose, nel documento si parlava di celebrare i militari, promuovere i valori tradizionali della famiglia e attaccare i Fratelli Musulmani, movimento politico-religioso che assunse il potere dopo la destituzione di Mubarak e che lo perse a causa del colpo di stato architettato due anni dopo proprio da al Sisi.

Il parlamento egiziano durante una seduta per discutere se modificare la Costituzione e permettere ad al Sisi di rimanere al potere fino al 2034. (AP Photo)

Il settore televisivo egiziano è solo l’ultimo degli obiettivi del regime di al Sisi, che negli ultimi anni ha cercato di imporre il proprio controllo su ogni aspetto della vita politica, amministrativa e culturale dell’Egitto. Già nell’autunno 2014, pochi mesi dopo il colpo di stato che portò alla destituzione del presidente eletto Mohammed Morsi, dei Fratelli Musulmani, diversi analisti e giornalisti indipendenti egiziani parlarono della diffusione di un “culto della personalità” verso al Sisi, che allora era solo viceprimo ministro e ministro della Difesa. Al Sisi è stato poi eletto presidente due volte: la prima nel 2014, con il 97 per cento dei voti, la seconda nel 2018 con un risultato simile, superando l’altro candidato Mustafa Moussa, peraltro suo ammiratore. Nessuna delle due elezioni è stata libera o democratica.

L’autoritarismo del regime di al Sisi è diventato sempre più evidente negli ultimi anni: uno dei casi più eclatanti, che in Italia ha avuto enorme risalto, è stato quello della morte di Giulio Regeni, ricercatore italiano dell’Università di Cambridge ucciso nel gennaio 2016 da apparati di sicurezza del regime egiziano, probabilmente a causa della tesi di dottorato che stava svolgendo sui sindacati indipendenti dei venditori ambulanti. La repressione di al Sisi non si è però rivolta esclusivamente contro accademici e oppositori politici, ma anche contro giornalisti e commentatori di vario tipo, perseguiti anche solo per avere pubblicato un post su Facebook critico nei confronti del regime. Yezid Saying, ricercatore del Carnegie Middle East Center a Beirut (Libano), ha detto: «Mi sento più sicuro a parlare di politica a Damasco [in Siria, dove governa il regime di Bashar al Assad, ndr] che al Cairo». L’autoritarismo di al Sisi «cerca di dominare lo spazio pubblico in maniera così totale che nessuno osa dire niente, nemmeno in privato, niente che possa essere visto come un’espressione di dissenso verso chi detiene il potere».

Il regime di al Sisi è diventato ancora più autoritario di quello imposto in Egitto da Hosni Mubarak per tre decenni. Il giornalista Declan Walsh ha raccontato sul New York Times che i tribunali militari egiziani operano da tempo senza praticamente alcun controllo esterno e che i servizi segreti riescono facilmente a manipolare i lavori del Parlamento. Proprio in Parlamento si sta discutendo una modifica della Costituzione che permetterà ad al Sisi di rimanere presidente fino al 2034 e che gli affiderà di fatto il controllo del potere giudiziario. In particolare è aumentato il potere dell’intelligence, che tra le altre cose si è infiltrata in maniera massiccia nell’economia egiziana.

Le politiche di al Sisi hanno alienato diversi settori della società egiziana e potrebbero avere messo il presidente in una posizione di futura vulnerabilità. Per il momento, comunque, il suo controllo del paese sembra essere molto saldo e il suo potere così esteso da permettergli di fare praticamente qualsiasi cosa.