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  • Sabato 13 aprile 2019

“L’Ungheria è persa”

Lo sostiene e argomenta un lungo saggio pubblicato sul giornale tedesco Zeit: i problemi arrivano da lontano, ma li hanno aggravati Orbán e l'inettitudine dell'Unione Europea

Budapest (Chris McGrath/Getty Images)
Budapest (Chris McGrath/Getty Images)

Sotto la superficie sexy dell’apparentemente cosmopolita Budapest, c’è la carcassa sfigurata di una democrazia, lasciata morire dissanguata. L’Ungheria, come la conosceva la mia generazione, è finita e non tornerà più per almeno altre due o tre generazioni, anche se Orbán sparisse domani. I danni alle istituzioni pubbliche, all’educazione, alla sanità, alla cultura ungherese, ai teatri, alla letteratura, alle arti, alla scienza e alla ricerca potrebbero anche essere riparati, in qualche modo, ma il razzismo e l’odio, il tessuto sociale disfatto e la crescente tendenza a ingannare e barare sono qui per rimanere. Il mio messaggio è: l’Ungheria è persa, ma l’Unione Europea e la maggior parte degli altri stati membri possono ancora salvarsi.

Il giornale tedesco Zeit ha pubblicato un lungo articolo che racconta – e interpreta –il declino politico, morale ed economico dell’Ungheria di Viktor Orbán, e come sia diventata un paese sempre più diviso e meno democratico. Il saggio è stato scritto da Beda Magyar, pseudonimo che nasconde l’identità di uno o una scienziata ungherese, a lungo dipendente della Central European University (CEU), l’università finanziata da George Soros che a causa delle vessazioni del governo di Orbán ha dovuto pochi mesi fa trasferirsi dall’Ungheria all’Austria. Magyar, spiega una nota, ha scritto sotto pseudonimo per proteggersi e proteggere la sua famiglia da eventuali ritorsioni.

Quello che avete appena letto è uno degli ultimi paragrafi dell’articolo, che prende però il problema da molto lontano, cercando di mettere in fila i grandi – enormi – temi che hanno contribuito a quella che Magyar considera la fine dell’Ungheria. Dentro c’è un po’ di tutto, dalla storia del paese al presunto “individualismo” dei suoi abitanti. E poi ci sono le grandi responsabilità dell’Unione Europea, che mentre veniva descritta da Orbàn come “il male” non cessava di tenere in piedi il suo potere con gli enormi finanziamenti europei che da anni reggono l’economia dell’Ungheria. Per iniziare, comunque, bisogna capire bene dove siamo, e cosa sia oggi l’Ungheria.

L’Ungheria oggi
Il saggio comincia da una descrizione dell’attuale situazione politica, sociale ed economica dell’Ungheria, che oggi, secondo Magyar, non raggiungerebbe gli standard minimi per poter entrare nell’Unione Europea: perché è ormai un paese illiberale, senza libertà di stampa e senza democrazia.

C’è una facciata di libertà di stampa, ma non ci sono più veri giornali indipendenti da quando fu approvata la legge sulla stampa, nel 2011. La propaganda statale permette a una manciata di giornali e televisioni con pubblico minuscolo di continuare a funzionare, ma la maggior parte delle testate indipendenti sono ormai state comprate o chiuse da Fidesz [il partito di Orbán, ndt]. C’è un’apparenza di rispetto dei diritti umani, ma la Costituzione del 2012 li rende soggetti a non meglio chiariti obblighi verso lo Stato, e le leggi sono comunque molto flessibili. Le elezioni sono libere sulla carta, ma chiaramente non lo sono in pratica.

Magyar fa altri esempi per dimostrare come in Ungheria si sia di fatto sgretolato lo stato di diritto. Dalla legge introdotta nel 2018 per cui anche i ritrovi di due persone possono essere considerati manifestazioni politiche, all’indagine su due deputati dell’opposizione che lo scorso dicembre avevano provato a entrare negli studi della televisione pubblica per protestare contro il pochissimo spazio che era stato loro concesso durante la campagna elettorale. E poi c’è stata la creazione di un sistema di tribunali parallelo e controllato dal governo, che si occuperà anche di questioni politicamente delicate come legge elettorale, corruzione e diritto di manifestare. Magyar sostiene che «la brutalizzazione della stampa e della società ha raggiunto livelli mai visti dagli anni Trenta»: anche se non ci sono omicidi o incarcerazioni politiche sistematiche, succedono cose strane e apparentemente inspiegabili di tanto in tanto – come quando un candidato dell’opposizione è stato investito da un’auto il giorno prima delle elezioni – e soprattutto c’è la totale assenza di un’opposizione, almeno a livello di organizzazioni di massa.

In tutto questo, dice Magyar, l’economia è «in stato disastroso» e tenuta in piedi artificialmente dai fondi europei e da «quattro o cinque società tedesche»: e Orbán non sembra avere un piano di qualunque tipo per risollevare la situazione. L’ultima grande legge sul lavoro approvata in Ungheria, quella che ha liberalizzato gli straordinari, è stata ribattezzata “legge sulla schiavitù” e provocato le prime grandi manifestazioni di piazza contro Orbán dopo anni.

In un paese di meno di dieci milioni di abitanti, quattro milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, e un milione vive in estrema povertà. Dottori e infermieri hanno lasciato gli ospedali in gran numero e la maggior parte delle cure per il cancro vengono negate a chi abbia più di 75 anni. L’economia è in declino costante dal 2008, la disoccupazione è mascherata da programmi di lavoro pubblici – obbligatori per chi cerca lavoro o percepisce un sussidio di disoccupazione e con stipendi più bassi di quelli minimi per legge – ed essere senza fissa dimora è diventato illegale. La povertà è evidente sulle strade di Budapest come lo era nei primi anni Novanta e gli 87 milioni di euro inviati ogni settimana dall’Unione Europea finiscono direttamente e senza controlli nelle tasche di qualche oligarca leale a Orbán.

Un paese diviso
Se l’Ungheria è arrivata a questo punto a causa di Orbán, i suoi problemi hanno però radici molto profonde, nella storia e nella cultura stessa del paese. Uno degli aspetti che secondo Magyar hanno più contribuito a portare l’Ungheria a essere quello che è oggi sono le grosse divisioni all’interno della sua società, che negli ultimi anni si sono fatte più forti e nette, ma che arrivano da lontano.

Oggi da una parte ci sono i sostenitori di Fidesz e della sua ideologia di estrema destra, dall’altra parte ci sono tutti gli altri: la frammentata opposizione politica, ma anche le minoranze etniche e religiose e i membri della comunità LGBTQ. Per i primi, i secondi rappresentano una sorta di “pericolo esistenziale” e la divisione non è quindi solo politica: da una parte ci sono i “veri ungheresi” mentre chi ha opinioni diverse è automaticamente un nemico del paese, “anti-ungherese”: mette a rischio la sopravvivenza stessa del paese.

Questa divisione, dice Magyar, si è fatta più netta e preoccupante negli ultimi anni ma è radicata nella storia dell’Ungheria. «L’Ungheria», dice, «è stata occupata da potenze straniere dal 1526 fino al 1920 e poi ancora dal 1945 al 1989. Questi traumi nazionali hanno creato un’atmosfera da “noi contro loro” e, più precisamene, quelli con loro (i traditori) e quelli contro di loro (i ribelli)». Dopo la fine dell’Unione Sovietica, questa frattura non si è ricomposta: se prima divideva ungheresi e stranieri, comunisti e sostenitori della democrazia, poi ha cominciato a dividere liberali e conservatori. Con la stessa durezza di prima e la stessa difficoltà a fare emergere voci e opinioni moderate.

Anche la destra moderata non ha alzato la voce quando un governo conservatore, nel 1993, organizzò un funerale militare d’onore per Miklós Horthy, il governatore fascista dell’Ungheria nel periodo tra le due guerre mondiali. Lui fu il primo a introdurre le leggi razziali nel 1920 e diventò poi uno dei più stretti alleati di Hitler, rendendosi responsabile della deportazione di 437.685 ebrei ungheresi ad Auschwitz e di altri crimini contro l’umanità. Ma quello che rappresenta l’Olocausto per la sinistra, per la destra è il Trattato di Trianon, l’accordo di pace che concluse la Prima guerra mondiale [che portò a una forte riduzione territoriale dell’Ungheria e a quella che è considerata l’umiliazione delle consistenti minoranze ungheresi nei paesi confinanti, ndt].

Oggi queste divisioni vengono incoraggiate e sfruttate da Orbán e Fidesz, e sono diventate uno dei tanti strumenti usati per rafforzare il potere del governo e indebolire le opposizioni. E poi, dice Magyar, Orbán è stato sempre abile a trovarsi dei nemici, che servissero insieme a unire i suoi sostenitori e distrarre tutti gli altri da quello che intanto non stava funzionando.

Il primo caso esemplare è stata la campagna contro i profughi siriani, nel 2015, che Magyar definisce «la più vasta campagna d’odio fascista dalla Seconda guerra mondiale»; e poi c’è stata quella contro un altro dei nemici prediletti di Orbán, il miliardario di origini ungheresi George Soros.

Soros è un obbiettivo ideale, perché rappresenta insieme i banchieri ebrei, i filantropi “comunisti” e i valore di una società aperta e liberale. Il “piano Soros”, come lo racconta Orbán, prevede l’insediamento forzato di migranti economici in Ungheria, pagandoli 2.000 o 3.000 euro ognuno, un piano che avrebbe già avvelenato e corrotto l’Unione Europea. Questa narrazione è un insieme potente di diversi elementi legati alla storia ungherese, a partire dalla difesa dell’Europa cristiana dagli Ottomani (oggi rappresentati dai musulmani, quei rifugiati siriani raccontati come “migranti economici”), la lotta per la libertà contro l’Austria nel 1818, la rivoluzione contro l’Unione Sovietica nel 1956 e la sconfitta delle invisibili forze maligne (gli ebrei) che distruggono tutto quello che c’è di importante: i sacri valori del nazionalismo rappresentati dallo slogan “Isten, haza, család”, “Dio, patria, famiglia”.

La lunga lotta del governo contro la Central European University – che in Ungheria rappresentava Soros – è solo uno degli esempi di come Orbán abbia individuato e poi combattuto i suoi nemici, sempre in equilibrio tra l’autoritarismo e un apparente rispetto delle leggi. In una situazione simile si trova oggi l’Accademia delle Scienze ungherese, una delle più antiche istituzioni culturali del paese: prima è stata accusata di sperperare soldi con i “degenerati” gender studies (gli studi sull’identità di genere), poi le sono stati congelati i fondi e intanto sono continuati gli attacchi politici di Orbán e dei suoi alleati. Lo scopo di questi attacchi, spiega Magyar, è rendere l’istituzione più dipendente dal governo.

Ussari e banditi
C’è poi un altro aspetto legato alla storia dell’Ungheria che ha reso il terreno così fertile alla sua rapida trasformazione in un paese illiberale: l’individualismo dei suoi abitanti. L’Ungheria, dice Magyar, ha uno dei popoli più individualisti d’Europa, ma se in altri paesi l’individualismo va insieme all’idea della responsabilità individuale, in Ungheria è vero il contrario: «la responsabilità individuale è bassa e la sfiducia è alta». In circostanze del genere, l’inganno è il modo con cui si prova a farcela: vince chi è bravo a fregare gli altri prima di essere fregato a sua volta. «Questo tipo particolare di pressione sociale», dice Magyar, «ha contribuito alla nascita di due prominenti ideali culturali ungheresi: il betyár (il bandito) e l’hussar (l’ussaro), che si alleano per dominare gli altri ma il cui valore più alto è la lealtà verso i loro pari. Seguono il loro codice morale, ma si mettono al di sopra della legge».

Il betyár è il bandito, «il Robin Hood della puszta», la steppa ungherese. È l’eroe popolare che ruba ai ricchi per dare ai poveri, che con la sua astuzia riesce a ingannare i potenti e le loro leggi ingiuste. «Gli ussari, il famoso corpo della cavalleria ungherese, sono nobili senza terra che hanno perso la ricchezza ma sono riusciti a mantenere i loro privilegi aristocratici», sono nobili senza meriti, un gruppo chiuso dove il merito non conta niente: conta solo «il sangue blu».

Questi due ideali diventano atteggiamenti culturali dominanti, come l’idea che disobbedire alla legge sia furbo e giusto, e che, al contrario, le regole valgano solo per gli inetti e per i poveri. Cercare di fregare l’autorità (come un betyár) non è un problema, specialmente se porta vantaggi personali, mentre i privilegi individuali (quelli degli ussari) diventano indicatori di successo. Il cuore del messaggio di Fidesz e Orbán è l’idea della superiorità degli ungheresi in quanto ungheresi, del loro essere sopra la legge, del loro dover essere celebrati non per i loro meriti, ma in quanto ungheresi. Bisogna sentirsi degli ussari, e vivere come dei banditi.

L’idea della superiorità naturale degli ungheresi, la divisione tra amici e nemici della patria e la ricerca costante di nemici da cui difenderla sono tre dei pilastri su cui si è fondato il successo di Orbán e su cui si regge il suo vasto consenso, dice Magyar. Recuperando un linguaggio politico dei primi del Novecento, riaccendendo i conflitti intorno ai grandi traumi nazionali e giocando con le grosse divisioni del paese, Orbán è riuscito a ottenere «l’incrollabile sostegno» di circa 2 milioni di elettori.

Orbán e i suoi consiglieri hanno trasformato la comunicazione politica con parole ed espressioni arcaiche, temi e maniere degli anni Trenta. La sua retorica gira intorno alla grandezza dell’Ungheria, al Trattato di Trianon, alla rivoluzione e alla guerra per l’indipendenza (da Vienna, da Mosca e oggi da Bruxelles). Ed è una retorica che spesso implica la distruzione degli anti-ungheresi, di solito senza dirlo esplicitamente e senza uscire dalla legalità.

Oggi, Orbán rappresenta e incarna il nazionalismo ungherese in un modo che gli permette di dire o fare quasi qualsiasi cosa, e in quasi totale assenza di opposizione. Chi si mette contro di lui, spiega Magyar, viene marginalizzato con l’accusa di essere un traditore anti-ungherese, qualcuno «che non merita rispetto e di cui, alla fine, bisogna disfarsi».

L’atteggiamento da ussari che combattono per la libertà giustifica la vittoria con qualsiasi mezzo possibile, non c’è regola, morale o legge che possa essere un ostacolo. In un curioso legame con l’ideale del betyár, rubare e fregare l’autorità – Bruxelles, in questo caso – diventa un gesto nobile, la rivoluzionaria espressione di resistenza e la prova della propria superiorità. Leggi e regole possono essere violate in ogni momento quando non sono “nell’interesse del popolo ungherese”.

Ma ormai non c’è più spazio nemmeno per il dissenso a “destra” di Orbán: anche un partito dal passato neonazista come Jobbik, spiega Magyar, ha cominciato a mostrarsi più cooperante e moderato dopo aver capito che non c’è spazio per esistere a destra di Fidesz. Ancora di più, dice Magyar: Orbán ha di fatto occupato anche tutto lo spazio per il dibattito pubblico, e lo controlla. Tutte le leggi che è riuscito a fare approvare in questi anni, a partire da quella sulla stampa nel 2011, sono sempre state presentate come “necessarie” per risolvere conflitti sociali che però di fatto erano nati proprio a causa di proposte e atteggiamenti di Orbán e Fidesz. È una strategia precisa, che lo stesso Orbán chiama “la danza del pavone”.

Il metodo fu testato per la prima volta nel 2011 con la legge sui giornali, che ha praticamente cancellato la libertà di stampa in Ungheria, e ha messo fine alla stessa stampa ungherese. Le testate indipendenti indicarono subito le sottigliezze legali e le ambiguità che di fatto avrebbero dato potere discrezionale ai tribunali indebolendo la libertà di stampa. Il governo accusò i giornali di essere di sinistra, ponendosi come vittime di un trattamento ingiusto. L’Unione Europea presentò una lunga serie di obiezioni, a cui il governo ungherese rispose svuotando ulteriormente le leggi e indicando per ogni critica ricevuta un passaggio di una legge di un altro paese dell’Unione. La UE alla fine decise che non poteva fare altro e rimase silente a guardare mentre la stampa ungherese veniva distrutta, il dissenso veniva messo a tacere e l’opinione pubblica veniva monopolizzata con la disseminazione di notizie false sponsorizzate dal governo.

L’Unione Europea
Uno dei grossi temi dell’articolo di Magyar è proprio la responsabilità che ha avuto l’Unione Europea nella storia recente dell’Ungheria, non solo come “spettatrice silente” ma anche come facilitatrice del successo di Orbán. Secondo Magyar, in questi anni sono stati i fondi dell’Unione Europea a tenere in piedi l’economia ungherese e a permettere a Orbán e ai suoi alleati di arricchirsi, aumentando il loro controllo sul paese. Tutto mentre Orbán capitalizzava politicamente dai suoi continui attacchi contro l’Unione Europea, contro i «burocrati che vogliono distruggere la nostra identità».

Dobbiamo dare la colpa di questo stato di cose all’elettorato ungherese? Sicuramente sì: Orbán è stato eletto legalmente nel 2010 (anche se le elezioni del 2014 e del 2018 sono state chiaramente manipolate). L’Ungheria sarebbe finita in questo stato di degrado se non fosse stato un paese membro dell’Unione Europea? Difficilmente. Il paese è costruito intorno ai fondi europei, a una manciata di società tedesche e ai confini aperti che rendono facile andarsene per chiunque la pensi diversamente.

Secondo Magyar, l’Unione Europea avrebbe potuto intervenire per tempo e avrebbe risparmiato all’Ungheria questo rapido declino politico, sociale ed economico. Ma quando ebbe l’occasione di farlo – per esempio quando nel 2012 i “diritti inalienabili” scomparvero dalla Costituzione – fu troppo timorosa e si nascose dietro la giustificazione che ogni intervento sarebbe stato un’indebita intromissione negli affari nazionali ungheresi. Togliere i fondi europei all’Ungheria ne avrebbe sicuramente distrutto l’economia, dice Magyar, ma almeno le sue istituzioni sarebbero rimaste in piedi e avrebbero permesso la ricostruzione del paese. Ormai però è troppo tardi, e anche quelle istituzioni sarebbero da ricostruire.

La retorica anti europeista di Orbán, inoltre, lo ha messo in una posizione di forza anche nel caso dovesse decidere di lasciare l’Unione Europea, quando non sarà più utile ai suoi fini. La recente sospensione del suo partito dal Partito Popolare Europeo, tra le altre cose, è stata raccontata da Orbán come una sua decisione; la battuta che circola è che “il Partito Popolare Europeo ha quasi lasciato Fidesz”, non il contrario. Se anche a questo punto l’Unione Europea decidesse di fare qualcosa, non servirebbe a niente, dice Magyar: perché il sistema oppressivo che Orbán è riuscito a costruire sarebbe in grado di sopravvivere anche con molte meno risorse di quelle necessarie qualche anno fa. E non ci sarebbero sistemi legali per cambiare le cose.

Come se ne esce
L’articolo di Magyar si chiude – se non con ottimismo – con qualche speranza, riposta comunque nell’Unione Europea. Però, dice Magyar, è necessario cambiare radicalmente approccio verso quello che sta succedendo.

Invece di limitarsi a credere che l’Ungheria sia una democrazia, è il momento di cominciare a cercare prove che non sia una dittatura. Invece che continuare a pensare che la democrazia sia in grado di difendere se stessa, l’Unione Europea e i paesi membri dovrebbero riconoscere che è la più fragile delle forme di governo, perché chiunque può arrivare al potere. E tuttavia, è esattamente questa anche la forza più grande della democrazia: la possibilità di autocorreggersi relativamente in fretta.

È arrivato il momento di seguire gli esempi positivi di resistenza e combattere con tutti i mezzi a disposizione per i valori dell’illuminismo, per i diritti umani, l’autodeterminazione, il dibattito parlamentare e la cooperazione; e per cominciare a prendere seriamente queste figure autoritarie affamate di potere e di sangue, invece di insistere con conversazioni diplomatiche sui diritti umani. L’estrema destra ha già preso il controllo del dibattito in gran parte dell’Unione Europea, ma la maggioranza vuole ancora un sistema unito, tollerante e  cooperativo. Per ora.