Dovremmo recuperare la cacca che abbiamo lasciato sulla Luna

Il suo studio potrebbe darci informazioni preziose su come resistono forme di vita in mondi diversi dal nostro

Tra pochi mesi ci sarà l’anniversario del primo allunaggio, quando gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin misero piede sulla Luna: i primi esseri umani a esplorare un mondo diverso dal nostro. La missione dell’Apollo 11 – ambiziosa quanto folle, a ripensarci oggi – fu un successo e mantiene il record di moltissime “prime volte” per i due astronauti e il loro collega Michael Collins (non scese sulla Luna) che la compirono. Tra i loro primati, ci fu anche quello di essere le prime persone a fare i loro bisogni sulla Luna a centinaia di migliaia di chilometri di distanza dalla Terra.

Come i colleghi che li avrebbero seguiti nelle successive missioni lunari, anche Armstrong e Aldrin lasciarono sulla Luna buste contenenti cacca, pipì e altri fluidi: ora alcuni ricercatori pensano che sarebbe interessante recuperarli, per capire se qualcosa sia sopravvissuto e comprendere meglio se e come possa funzionare la vita fuori dal nostro pianeta.

Dal 1969 al 1972 le missioni del programma Apollo che portarono esseri umani sulla Luna furono sei, ciascuna con due astronauti (e un collega che rimaneva in orbita lunare). Prima di ripartire verso la Terra, questi esploratori spaziali si lasciarono alle spalle nel complesso 96 sacche di “rifiuti umani”, cioè prodotti per lo più dal loro organismo; oltre alla cacca e alla pipì, lasciarono sacche di vomito e resti di cibo, per esempio. Furono lasciati anche molti altri oggetti, compresi un rametto di ulivo in oro, degli zaini, pellicole per cineprese e un paio di palline da golf. E, certo, anche 5 su 6 delle bandiere statunitensi portate sulla Luna e finite in alcune delle fotografie spaziali più famose di sempre.

Una sacca ai piedi del modulo lunare (LEM), lasciata dagli astronauti sulla Luna nel 1969 (NASA)

A seconda delle missioni Apollo, gli astronauti restarono sulla Luna fino a un massimo di tre giorni. Avevano scorte di acqua e cibo, facevano attività molto faticose nelle loro ingombranti tute, e non avevano molto spazio per fare i loro bisogni. La dieta era pensata per ridurre al minimo la necessità di doverli fare, ma la NASA aveva comunque pensato a queste evenienze.

Quando si trovavano protetti all’interno dei moduli spaziali dell’Apollo, gli astronauti potevano utilizzare una piccola sacca che veniva fatta aderire alle natiche attraverso un nastro adesivo. Le feci venivano raccolte nel sacchetto, che veniva poi sigillato. Al suo interno venivano anche riposte le salviette per pulirsi e quelle disinfettanti per mantenere un minimo d’igiene.

Sacca per le feci (NASA)

Durante le escursioni lunari, le cose erano più complicate o semplici, a seconda dei punti di vista. La tuta degli astronauti era dotata di “biancheria a massima assorbenza”. Detta in parole povere: un pannolone. Poteva raccogliere fino a 900 centimetri cubi di urine e feci, garantendo agli astronauti di rimanere sufficientemente asciutti nel caso in cui fossero colti dalla necessità mentre erano al lavoro all’esterno. Una volta rientrati nel modulo lunare, potevano cambiarsi e buttare il pannolone in una sacca sigillata, una di quelle che sarebbero poi rimaste sulla Luna.

Pannolone per le attività extraveicolari (NASA)

Brian Resnick di Vox, che di recente ha dedicato un articolo alla cacca lunare, si è messo in contatto con Charlie Duke, astronauta dell’Apollo 16 che trascorse 71 ore sulla Luna nel 1972. Duke ha confermato di avere lasciato «rifiuti umani» sulla Luna: «Sì, lo abbiamo fatto. Abbiamo lasciato dell’urina che era stata raccolta in un contenitore… Credo anche che siano stati lasciati un paio di bisognini, ma non ne sono sicuro, comunque erano in una sacca per i rifiuti. Avevamo un paio di sacche che gettammo fuori [dal modulo] sulla superficie lunare». Come nota Resnick, è singolare che una persona vada sulla Luna e non si ricordi se, in quella storica e complicata occasione, avesse o meno fatto la cacca. Duke ha comunque spiegato che la permanenza fu di poco meno di tre giorni, un periodo in cui non è così particolare non avere bisogno di farla.

Le missioni spaziali sono di solito organizzate con grandissime precauzioni per evitare che gli strumenti inviati verso altri pianeti possano contaminarli, portando batteri terrestri sulla loro superficie. È per questo che nelle fotografie dei laboratori in cui si assemblano le sonde e i robot automatici (rover) si vedono spesso tecnici e ingegneri con grandi tute e mascherine. Queste precauzioni diventano ancora più importanti per le missioni il cui obiettivo è proprio quello di scoprire eventuali, e primordiali, forme di vita extraterrestri nel nostro sistema solare.

Per le missioni lunari fu utilizzato un approccio un po’ più disinvolto, anche perché le conoscenze avevano portato a concludere che la Luna fosse un posto brullo e asettico, ostile alla vita. Il peso delle strumentazioni e degli oggetti trasportati con le missioni Apollo era inoltre centrale per la riuscita delle imprese lunari: non si poteva sforare e quindi era inevitabile che gli astronauti si lasciassero alle spalle tutto il superfluo prima di ripartire verso la Terra, comprese le sacche con i loro bisogni.

Complici l’anniversario del primo allunaggio e un nuovo interesse degli Stati Uniti per le missioni con esseri umani sulla Luna, alcuni ricercatori hanno iniziato a valutare la possibilità di recuperare alcune di quelle sacche per analizzarne il contenuto e vedere se sia sopravvissuto qualcosa. In media il 50 per cento delle nostre feci è costituito da batteri, minuscoli esseri viventi che hanno dimostrato di sopravvivere sulla Terra in condizioni estreme: nei posti gelidi ai poli, così come in quelli caldissimi nelle profondità oceaniche in prossimità delle sorgenti idrotermali. Ma resisterebbero all’ambiente lunare?

È difficile dirlo senza avere i campioni sottomano, ma si possono comunque fare un po’ di ipotesi sapendo come funzionano le cose sulla Luna. Il nostro satellite naturale non ha un campo magnetico come la Terra, che ci protegge dalle radiazioni cosmiche più dannose; non ha inoltre un’atmosfera paragonabile alla nostra, con strati di gas come quello dell’ozono che ci proteggono dalle radiazioni solari più pericolose. La Luna è inoltre esposta a repentini e drastici cambiamenti di temperatura: le parti esposte al Sole raggiungono i 100 °C, mentre quelle in ombra arrivano a -173 °C. È un’escursione termica fortissima, che certamente metterebbe a dura prova qualsiasi forma di vita, come ha dimostrato il recente caso del “cotone lunare” cinese.

Attività sulla Luna nel corso della missione Apollo 15 nel 1971 (NASA)

Condizioni così estreme hanno probabilmente determinato la fine dei batteri nelle sacche lunari contenenti i bisogni degli astronauti. La probabilità che sia rimasto qualcosa di vitale è molto bassa, ma è comunque la più alta se confrontata con tutto il resto che fu lasciato sulla Luna e che inevitabilmente portava con sé qualche batterio.

In linea di massima, le colonie di batteri non crescono in assenza di umidità. Assumendo che le sacche fossero ben sigillate, come indicato dalla NASA, c’è la possibilità che i liquidi non siano evaporati, mantenendo un ambiente umido a sufficienza per consentire ai batteri di riprodursi e mantenersi vitali. I netti cambiamenti di temperatura potrebbero avere messo a dura prova gli involucri delle sacche: se si fossero create crepe, per esempio, queste avrebbero esposto il materiale all’ambiente spaziale, rendendo più improbabile la sopravvivenza dei batteri.

Anche se non ci fosse più vita all’interno delle sacche, sarebbe comunque interessante studiarne il contenuto. I ricercatori potrebbero farsi un’idea su quanto tempo rimasero vitali i batteri prima di morire e se, viste le particolari circostanze, si fossero evoluti per resistere meglio all’ambiente in cui erano finiti. La loro mutazione potrebbe fornire indizi su come la vita potrebbe essersi sviluppata su pianeti diversi dal nostro, dove le condizioni per la vita sono meno straordinarie e favorevoli.

La Luna è del resto l’ambiente più estremo in cui gli esseri umani abbiano mai portato, e lasciato, la vita. Ed è questo il presupposto da cui partono i ricercatori che ipotizzano una missione di recupero delle sacche lunari. Non escludono nemmeno che i batteri, ormai morti, possano essere riportati in vita. Qualcosa di analogo è già stato fatto sulla Terra con spore vecchie di millenni e trovate nell’Artico.

Se si scoprisse che qualcosa è sopravvissuto nelle sacche, inoltre, potremmo avere nuovi importanti indizi su come potrebbero funzionare le cose su Marte, dove tutto sommato le condizioni per la vita sono meno ostili rispetto a quelle sulla Luna. Da tempo ci si chiede se ci sia stata mai vita su Marte e, con le attuali conoscenze, non possiamo nemmeno escludere che ce ne sia ancora oggi, sempre sotto forma di particolari batteri in grado di sopravvivere sul pianeta.

La NASA ritiene di portare i primi esseri umani su Marte entro la fine dei prossimi anni Trenta, altri come Elon Musk con la sua SpaceX ritengono di poterlo fare ancora prima. L’esplorazione di Marte, la cui distanza dalla Terra varia da 55 a 400 milioni di chilometri a seconda dei periodi, resta a oggi l’obiettivo più ambizioso nella storia dei viaggi spaziali con esseri umani. Anche per i primi astronauti che raggiungeranno Marte si porrà il problema di come lasciare i loro rifiuti, assicurando che la loro presenza sulla superficie marziana non contamini il pianeta. Se ci fosse una contaminazione, rischieremmo di non sapere mai con certezza se Marte ospitasse qualche forma di vita prima del nostro arrivo.

Il “Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti”, sottoscritto da buona parte dei paesi del mondo nel 1967, dice che tutti devono impegnarsi a evitare la contaminazione dello Spazio. Lo studio di ciò che Armstrong e gli altri astronauti lasciarono sulla Luna potrebbe aiutarci a progettare nuovi sistemi per le missioni future, riducendo il rischio di contaminare Marte con una cosa che proprio non possiamo evitare di fare.