La nuova parola-scandinava-che-noi-non-abbiamo

"Pyt": è anche un modo per combattere lo stress, dicono

Koichi Kamoshida/Getty Images
Koichi Kamoshida/Getty Images

Tra i grandi classici di internet, del giornalismo e dell’editoria ci sono gli elenchi – spesso illustrati – di parole straniere intraducibili (anche all’estero lo fanno, con parole italiane come “attaccabottoni”, “meriggiare” e “qualunquismo”). Spesso le parole intraducibili di cui parliamo sono scandinave: ne è un recente esempio la parola danese hygge, che Treccani definisce come una «condizione di benessere psicologico, emotivo, ambientale, caratterizzata da una serena disposizione d’animo verso la realtà». Marie Helweg-Larsen, professoressa danese di psicologia, ha parlato su The Conversation di un’altra parola danese che secondo lei «potrebbe tornare comoda al resto del mondo per combattere lo stress», anche se più che una parola «è un concetto culturale sul coltivare pensieri positivi». La parola è pyt.

Pyt, che non si pronuncia molto diversamente da come vi verrebbe di fare prima di sentirla pronunciare, è una parola che sembra piacere molto ai danesi. In un sondaggio organizzato dalla Danmarks Biblioteksfoening, un’associazione di librerie danesi, alcuni l’hanno scelta come parola del 2018, superando parole come dvæle (soffermarsi) e krænkelsesparat (preparare un’offensiva).

Helweg-Larsen ha spiegato che in Danimarca pyt è un’esclamazione usata in reazione a un fastidio, un inghippo, una noia, un problema che magari sembra grande sul momento ma che, a ben vedere, non lo è. Il suo significato è simile a quello delle locuzioni inglesi «Don’t worry about it» o «Stuff happens», e quindi dell’italiano «Fregatene, cose che capitano» (o a forme espressive più colorite ed efficaci, in certi casi proprie di alcune aree, generazioni o regioni). Solo che molto spesso pyt ce lo si dice da soli, per autoconvincersi che nel grande schema delle cose quel piccolo problema non avrà nessun impatto o significato.

Pyt si può dire quando si è casa e si rompe un bicchiere; quando qualcuno ci rallenta mentre siamo di fretta; quando si dice una frase di cui poi ci si pente; ma anche quando si trova una multa sul parabrezza. È, diciamo, un’alternativa all’imprecazione; una forma di accettazione che, a volte, certe piccole cose spiacevoli capitano e basta. «Ha a che fare con l’accettazione e l’azzeramento», ha scritto Helweg-Larsen: «È usata per ricordarsi di fare un passo indietro e, anziché avere reazioni esagerate, focalizzarsi su quel che conta. È un modo per lasciar stare e andare oltre». Pyt può anche essere un consiglio, che Helweg-Larsen spiega così: «Pyt, non farti consumare dalla litigata con quel collega».

Helweg-Larsen cita anche «studi che mostrano quanto le persone siano più felici e vivano più a lungo quando hanno meno grattacapi e seccature» e aggiunge che «in certi casi, quei grattacapi e quelle seccature sono conseguenza di come noi interpretiamo ciò che ci succede intorno». È uno di quei casi in cui, quando qualcosa sembra essere un problema, per capire che probabilmente non lo è davvero basta chiedersi: «Lo percepirò ancora come un problema tra due ore, tra due giorni o tra due settimane?».

Occhio però a non dire pyt in ogni situazione: non deve diventare un modo per giustificare ogni proprio sbaglio o per giustificare la propria pigrizia. In più, ci sono situazioni che sono davvero problematiche e gravi, alle quali è impossibile non pensare. La psicologia positiva va applicata a certi ambiti e momenti, ma non può essere una risposta per tutto. Credere in se stessi prima di un esame fa bene, ma anche studiare aiuta.

Helweg-Larsen ha raccontato che in Danimarca ci sono scuole con i “pulsanti pyt”, che i bambini sono incoraggiati a usare per imparare che non devono perdersi in piccole frustrazioni. I “pulsanti pyt” sono anche in vendita, ma non fanno granché: quando li si preme dicono “pyt”. Ma non è detto che funzioni sempre.