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  • Lunedì 11 marzo 2019

Come inizia il romanzo di Massimo Coppola

"Un Piccolo buio", pubblicato da Bompiani, comincia nel 1936 e finisce nel 2036

Un particolare della copertina di "Piccolo buio" di Massimo Coppola (Bompiani)
Un particolare della copertina di "Piccolo buio" di Massimo Coppola (Bompiani)

La scorsa settimana è uscito nelle librerie il primo romanzo di Massimo Coppola, autore televisivo, regista di film e documentari, ed ex editore. Si intitola Un piccolo buio e lo ha pubblicato Bompiani. Coppola lo ha scritto in gran parte tra il 2003 e il 2004, per poi rimettercisi e finirlo nel 2017. La storia che racconta comincia nel 1936 ma al centro c’è sempre lo stesso edificio: esiste davvero, è uno dei diversi “Palazzo Vittoria” che ci sono a Milano. Il libro ha undici capitoli, ognuno ambientato in un decennio diverso. Nel corso del tempo le storie di diversi personaggi si alternano, ma sono legate tra loro, e si capisce cos’è il «piccolo buio» del titolo: c’entra la memoria e il rapporto che si ha con il passato.

Pubblichiamo due estratti del romanzo: l’inizio del primo capitolo e l’inizio del decimo. Quello subito qui sotto invece è Palazzo Vittoria.

***

1936 – Palazzo Vittoria

“Prima o poi lo ammazzo.”
“Non dirlo nemmeno per scherzo.”
“Scherzo.”
“E allora come facciamo a sposarci? Devi diventare fascista almeno per un po’. Almeno fino a quando ci sposiamo.” “Non so se ci riesco.”
“Allora non mi ami.”
“Posso fingere di non essere antifascista, al limite.” “Sei antifascista.”
“Sì, ma a parte te non lo sa nessuno.”
“Mio padre ha detto che posso sposare chi voglio, a una sola condizione. Che sia fascista. Fascistissimo, anzi, ha detto. Proprio così. Fascistissimo.”
“Superlativo.”
“Cosa?”
“Niente. Insomma, per averti io devo diventare fascista. Bella fregatura.”
“Solo per finta.”
“Io lo ammazzo tuo padre.”
“Smettila!”
“Vera, scherzo. Scherzo. Però che situazione. Mi capisci, sì? Anche tu mi vuoi quanto ti voglio io, giusto?” “Questo non lo so.”
“Sì che lo sai.”
“Dici, eh? Mettimi alla prova.”
Michele si avvicina, le poggia le labbra sul collo, lei solleva la testa, le mani di Michele cominciano a muoversi con una cautela trattenuta a stento. Le mani, sotto la camicetta di Vera.
“Dai smettila, che ci vedono.”
“Qui non passa nessuno da dieci anni, te lo dico io.”
“Sì, ma smettila. Oppure no, continua ma solo per un poco.” “Vera.”
“Dimmi, Michele.”
“Sono esausto.”
“Pazienza, un po’ di pazienza e tutto si aggiusterà.” “Quando cominceranno ad accopparsi tra di loro? Sono troppo stupidi per non farlo.”
“Non lo so, Michele.”
“Che si accoppino tra di loro ’sti fascisti, così noi ci accoppiamo in santa pace.”
“Scemo. Non lo so nemmeno se voglio sposarti.”
“Non dirlo neanche per scherzo.”
“Scherzo.”
“Io mi tolgo la camicia, fa caldo. Te la togli anche tu?” “…”
“Almeno slacciala, dai. Io divento pazzo, Vera.”
“Non so se dirti una cosa.”
“Dimmi.”
“No, magari fraintendi.”
“Dimmi, Vera.”
Michele di nuovo vicino a lei, attaccato a lei.
“Credo che io ti voglio quanto mi vuoi tu.”
In un attimo Vera si divincola e corre via dal vicoletto, Michele la vede illuminata dal lampione della strada principale, scappa voltandosi un momento, un momento solo a guardarlo. Quante altre volte la vedrà scappare via così?
A domani, pensa Michele. A domani.

***

2027 – Futuro amore in tempo di guerra

Lui e lei hanno trentacinque anni. Vivono insieme (felici, molto felici, sì, felici) da qualche anno. È un fine settimana e come tutti i fine settimana anche questo è dedicato a stare insieme, in casa, senza pensare ad altro che a loro stessi. Nessuno ormai è così stupido da uscire di casa se non per lavorare. Per quei pochi che ancora hanno un lavoro che li obbliga a uscire di casa e incontrare altri esseri umani. Per gli altri il tema non si pone nemmeno.

Lui e lei stanno mangiando: due piatti bianchi e larghi punteggiati da un composto vegetale e da alcuni pezzetti di pasta; due bicchieri vuoti davanti a ognuno dei due piatti, il rumore monotono delle posate. Ascoltano la radio, una vecchia radio mono comprata su un sito specializzato in modernariato. Alla radio c’è la partita di un qualche sport commentata controvoglia da un telecronista stanco. Non si dicono nulla, si sorridono ogni tanto. Alla fine si scambiano un parere positivo sul cibo. L’orologio a led digitali rossi appeso al muro, il frigorifero silenziosissimo, le mani affusolate e ben curate di lei sono le tre cose su cui si posa lo sguardo di lui. Gli occhi di lui che guardano la parete, gli avanzi nel proprio piatto e il palazzo grigio di fronte le tre cose su cui si posa lo sguardo di lei. Decidono di alzarsi, nessuno spegne la radio.

Si spostano nella sala video ora, dotata di un grande divano morbido e circolare, un bel tappeto e un grande schermo a parete. Lei ha addosso solo una lunga camicia, lui le scosta i piedi per sedersi più comodamente, poi li prende in grembo, li accarezza.
“Come è andata oggi?” chiede lui.
“Ho fatto ginnastica. Mi sono svegliata tardi. Pensa che quasi volevo uscire, poi mi è passata la voglia.”
Lei accende la televisione. Sul primo canale le notizie di una guerra che dura da così tanto da non riguardarli più, men che meno nel fine settimana. Lei abbandona la testa all’indietro, lui può guardarle il lungo collo, il mento, la pelle che si arrotola dietro le orecchie, i capelli sparsi sul bracciolo del divano. Le si fa vicino.
“Giochiamo un po’” dice lei.
“Giochiamo” dice lui.

La TV viene spenta, vanno verso la camera da letto camminando abbracciati lungo il corridoio, proprio come due fidanzati ai giardini, mano nella mano, la testa di lei poggiata sulla spalla di lui, un sorriso sul volto di entrambi. In cucina la radio ancora accesa diffonde un nuovo comunicato di allarme generale, emergenza eccetera. Lui e lei si fermano sulla soglia ad ascoltare la voce che legge una lunga cronologia di eventi, dieci anni di storia in cinque minuti mandati in onda quotidianamente, alla stessa ora, e che nessuno ascolta più. Un riassunto, nel caso qualcuno non avesse presente dove si trova, in che mondo vive. Una trovata interessante, ha sempre pensato lei. Un inutile spreco di tempo, ha sempre pensato lui. Oggi ascoltano la cronistoria del loro passato in silenzio.

“E se ci facessimo un bel bagno?” dice lei, salendo coi suoi piedi nudi su quelli di lui. “Ho freddo.”
“Sì” dice lui, portandosela a spasso in equilibrio sui piedi fino al bagno, come faceva Chiara con lui quando era piccolo.
L’acqua scorre, lei la guarda poggiata sul bordo smaltato della vasca, lui le accarezza i capelli. Lei pensa che i giorni sono tutti uguali, lui non pensa a niente, la accarezza e la accarezza. Quando il bagno è pronto lui va in cucina a prendere la radio, la sistema sopra un mobiletto. Entrano nella vasca e giocano con l’acqua. Lei fa il gioco di prendere l’acqua in bocca per poi risputarla fuori con un getto. Lui fa finta di arrabbiarsi e le mette la testa sott’acqua, allora lei apre il soffione della doccia e lo dirige verso il viso di lui che si sposta. L’acqua finisce contro la parete e cola giù lentamente come lacrime finte. Ora lei lo guarda e passa un dito sulla cicatrice che attraversa la tempia di lui fino all’occhio, per poi deviare e scomparire dietro l’orecchio.
“Non me lo vuoi proprio dire come te la sei fatta, Alessandro?”

Alessandro. A lei piace dire il suo nome per esteso. Ha ancora i capelli bagnati quando in piedi sul letto basso inizia a ballare sulle note di un vecchio disco appartenuto alla madre di lui. Ale sfoglia una rivista di quindici anni prima e pensa a quanto tempo è passato da quando ha fatto sport a cielo aperto, prova a concentrarsi per ricordare, non gli viene in mente niente, eppure non è passato così tanto tempo. La canzone che ascoltano è una canzone francese. Parla di una donna che è stata lasciata e che rivolgendosi all’amato gli dice che qualcuno le ha detto che lui la ama ancora. Che belli i capelli bagnati, pensa lui e subito dopo suona l’allarme dei filtri dell’aria, vanno cambiati spesso, ultimamente sempre più spesso, non passa neanche una settimana che suona l’allarme.
“Ci metto un minuto” dice lui.
“Fai in fretta che voglio far l’amore”.

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