Il populismo ha fatto anche cose buone?

Una ricerca condotta da un gruppo di accademici in collaborazione con il Guardian dice che i governi populisti fanno diminuire le diseguaglianze, ma ci sono alcuni "ma"

(AP Photo/Paul White/Ariana Cubillos/Darko Vojinovic/Andrew Medichini)
(AP Photo/Paul White/Ariana Cubillos/Darko Vojinovic/Andrew Medichini)

Secondo una ricerca pubblicata dal quotidiano britannico Guardian, i governi populisti hanno ridotto le diseguaglianze sociali ed economiche, mentre contemporaneamente hanno attaccato le istituzioni democratiche ed eroso la libertà dei cittadini dei loro paesi (qui l’articolo del Guardian, qui il testo completo della ricerca). La prima conclusione è quella di cui si sta più discutendo, perché contraddice un’assunzione spesso ripetuta in questi anni: che le misure economiche dei governi populisti producano, sul lungo periodo, solo effetti negativi. È una questione molto interessante, ma anche molto problematica.

I ricercatori hanno scoperto che i governi populisti e in particolare i populisti di sinistra dell’America Latina sono correlati con una diminuzione dei livelli di diseguaglianza (correlazione significa che i due fenomeni tendono a presentarsi contemporaneamente, anche se non sono necessariamente in una relazione causale diretta). I ricercatori hanno anche confermato quello che già da tempo si sospettava: i governi populisti sono spesso associati ad un calo nella qualità delle elezioni, una riduzione dei contrappesi al potere dell’esecutivo e, a volte, con una drastica riduzione della libertà di stampa.

La ricerca è stata realizzata “Team Populism”, un network di ricercatori, soprattutto sociologi ed economisti, che da tempo collabora con il Guardian e che ha realizzato il Global Populism Database, un database che raccoglie oltre 720 discorsi di politici, analizzati in base al loro utilizzo di una retorica populista. I ricercato del “Team Populism” usano la definizione di populismo più diffusa tra gli scienziati politici: un modo di agire che definisce la politica come battaglia tra un popolo virtuoso e un’élite nefasta e corrotta e predica la vittoria delle ragioni dei primi su quelle dei secondi. In  quanto strategia o visione del mondo, il populismo può essere di destra oppure di sinistra.

Secondo lo studio pubblicato dal Guardian, quando i leader populisti arrivano al potere i livelli di diseguaglianza subiscono una rapida e spesso netta flessione. Questo effetto sembra essere particolarmente pronunciato in America Latina, ad esempio nei paesi governati da leader populisti di sinistra come la Bolivia di Evo Morals, l’Ecuador governato da Rafael Correa e il Venezuela di Hugo Chavez. La correlazione tra la presenza di leader populisti esiste anche nel caso di leader populisti di centro e di destra, anche se è meno forte. I ricercatori mettono comunque in guarda da interpretazioni troppo stringenti delle loro teorie e avvertono ad esempio che il loro set di dati arriva fino al 2016: è quindi impossibile, per il momento, valutare gli effetti sulle diseguaglianze di leader populisti come Nicolas Maduro in Venezuela (dove è in corso una gravissima crisi economica) e Donald Trump negli Stati Uniti.

Il professor David Doyle, dell’università di Oxford, che ha guidato il team e che si è occupato della parte economica della ricerca, dice che non si aspettava questi risultati, forse perché influenzato da «anni di ricerche che ci dicevano che il populismo è soltanto negativo». In precedenza, molti studiosi ritenevano che i regimi populisti di sinistra dell’America Latina avessero aumentato la spesa pubblica, ma producendo solo effetti negativi che a loro volta avrebbero causato ulteriore diseguaglianza e frammentazione nei loro paesi.

In base allo studio risulta anche che ci sono leader non populisti che hanno ottenuto buoni risultati nella riduzione delle diseguaglianze. Due esempi sono il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg e il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Secondo i ricercatori, però, tra i leader di sinistra e i leader di sinistra populisti esistono significative differenze. I secondi non sono semplicemente “più di sinistra”, ma appartengono a una sinistra differente che ha un impatto maggiore sulla riduzione delle diseguaglianze di qualsiasi altro tipo di governo.

Doyle spiega che il modo in cui le diseguaglianze sono state ridotte rimane abbastanza misterioso. Ad esempio non sembra che abbiano avuto una parte importante le tradizionali politiche di tassazione dei ricchi e redistribuzione. «Siamo rimasti con l’interrogativo di come diavolo abbiano fatto a ridurre le diseguaglianze in maniera così significativa», dice Doyle.

Una possibile spiegazione è che il boom nei prezzi delle materie prime creato nel corso degli anni Duemila dalla crescente domanda proveniente dalla Cina abbia permesso ai governi populisti di sinistra, arrivati proprio in quegli anni al potere in numerosi paesi produttori di materie prime, di redistribuire i proventi delle esportazioni e ridurre così le diseguaglianze. Altre ipotesi riguardano il possibile effetto dell’introduzione di minimi salariali e di tutele sul lavoro. In paesi come il Venezuela, alla riduzione delle diseguaglianze potrebbe aver contribuito il fatto che, semplicemente, numerosi ricchi hanno lasciato il paese: se i ricchi sono meno ricchi, le diseguaglianze sono formalmente minori anche se la condizione di vita dei poveri non è migliorata.

I ricercatori che si sono occupati della parte sociologica delle studio sottolineano però che molto spesso l’ascesa di governi populisti corrisponde a una riduzione nella qualità della vita democratica, che può in certi casi essere messa a rischio, nella diminuzione della libertà dei media e nell’aumento dei poteri dell’esecutivo (fatti, questi, maggiormente noti e studiati). Il caso più eclatante è il Venezuela, il quale, secondo gli standard utilizzati dai ricercatori, è sceso molto nella classifica della libertà durante gli anni di governo di Hugo Chavez e dove la democrazia è quasi arrivata al punto di collasso con il suo successore Nicolás Maduro (per dirne una: ora il paese ha due presidenti).

Secondo i ricercatori, la correlazione tra governi populisti e diminuzione della qualità della democrazia rimane anche eliminando i due esempi più eclatanti (cioè il Venezuela e la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan). Insomma: con poche eccezioni, una volta al potere, i governi populisti finiscono per  attaccare le istituzioni democratiche. Un effetto opposto a questo è che la presenza di leader populisti produce spesso un incremento nell’affluenza alle elezioni e quindi, concludono i ricercatori, può avere alcuni paradossali effetti positivi sulla qualità della democrazia.

«Quando i leader populisti arrivano al potere promettono di riportare all’interno della società coloro che si sentono esclusi tramite la partecipazione politica o i programmi sociale», spiega Doyle: «Per la prima volta quindi queste persone pensano che lo stato stia facendo qualcosa per loro».

Cas Mudde, politologo olandese e uno dei principali studiosi di populismo (è uno dei principali autori della moderna definizione di populismo), ha dedicato allo studio un thread su Twitter, complimentandosi con i ricercatori per il lavoro svolto e offrendo alcuni spunti critici di riflessione. Ad esempio, Mudde nota come una discreta parte dell’effetto rilevato dallo studio arrivi dall’America Latina, dove però non sono stati solo i populisti a ridurre le diseguaglianze, ma anche i politici della sinistra tradizionale (come Lula in Brasile, ad esempio). Mudde si domanda quindi quanta parte della correlazione sia dovuta a fattori specifici dell’America Latina, piuttosto che legati al populismo.

Mudde inoltre sottolinea molto l’importanza del boom delle materie prime, segnalato dai ricercatori ma non a sufficienza approfondito secondo lui, e ipotizza che probabilmente anche altri tipi di governo avrebbe utilizzato quelle risorse per compiere una redistribuzione e ridurre le diseguaglianze, anche se probabilmente l’avrebbero fatto in misura inferiore. Mudde nota anche che il regime venezuelano ha utilizzato parte dei proventi delle sue esportazioni di petrolio per sussidiare regimi con simili piattaforme ideologiche in paesi vicini, contribuendo almeno in parte al successo delle loro politiche redistributive.

Il suo ultimo e più importante appunto riguarda invece i dati su cui è costruita la ricerca e su quanto siano realmente affidabili. Anche se è improbabile che le cifre utilizzate siano completamente inventate (quando i governi lo fanno, di solito diventa rapidamente evidente agli esperti), a Mudde sembra difficile che governi disposti a influenzare pesantemente i media e non facciano lo stesso con le agenzie che si occupano di rilevazioni statistiche. Il problema è particolarmente grave, continua, per regimi come quello di Nicolas Maduro in Venezuela, che reggono buona parte della propria legittimità proprio sul successo nella lotta alle diseguaglianze. È quindi possibile che parte dei dati che sono a fondamento dello studio non rispecchino correttamente la situazione dei paesi a cui si riferiscono, raccontando una storia migliore di quella che è.