La Georgia ci crede ancora un sacco, nei Bitcoin

Nel 2015 inaugurò un piano di agevolazioni per attirare le industrie del settore, e nonostante il grande calo attuale il progetto continua

Un panorama di Tbilisi. (VANO SHLAMOV/AFP/Getty Images)
Un panorama di Tbilisi. (VANO SHLAMOV/AFP/Getty Images)

Mentre il mondo ha smesso da un po’ di parlare di Bitcoin, la Georgia sta continuando un imponente programma di investimenti nelle criptovalute che prevede una collaborazione con BitFury, una delle più grandi aziende mondiali del settore che ha una sede nel paese fin dal 2015. Il New York Times ha raccontato che in quell’anno Sogno Georgiano, il partito di governo fondato dall’imprenditore Bidzina Ivanishvili, offrì a BitFury un prestito di dieci milioni di dollari e gli vendette 18 ettari di terra a un dollaro; da allora il coinvolgimento del paese nel settore delle criptovalute è sempre aumentato.

BitFury accettò la proposta della Georgia, e costruì un grande magazzino per “estrarre” bitcoin: cioè riempì un capannone di computer che, giorno e notte, lavorano per mantenere attivo il sistema alla base di Bitcoin, ottenendo in cambio criptovalute. Nel mondo ci sono centinaia di aziende che lo fanno, spesso costruendo capannoni in zone isolate di paesi come Cina, Islanda, Canada o Russia. Mettendo a disposizione una  sufficiente quantità di computer, il sistema Bitcoin premia i “minatori”, come vengono chiamati in gergo, con una certa quantità di Bitcoin. Maggiore è la potenza di calcolo, maggiori sono i guadagni.

Dato che queste aziende vengono pagate in bitcoin, il valore della criptovaluta influenza molto i guadagni: nel dicembre del 2017 i bitcoin sfiorarono i 20mila dollari per unità, mentre oggi viaggiano intorno ai 3.500 dollari. Moltissime aziende nel mondo non hanno retto a questo calo di valore, e hanno dovuto chiudere. BitFury però gode di alcuni vantaggi: il governo per esempio vende l’elettricità all’azienda a prezzo dimezzato rispetto a quelli di Europa o Stati Uniti, e ha disposto vari tipi di esenzioni fiscali. Il centro di estrazione di BitFury in Georgia consuma l’energia di circa 50.000 abitazioni, ed è alimentato grazie all’energia idroelettrica ricavata dai fiumi che scendono dalle montagne del Caucaso.

In cambio degli aiuti del governo, BitFury ha aiutato a spostare i registri catastali nazionali sulla blockchain, cioè sulla tecnologia che sta dietro alle criptovalute. È una cosa molto complessa, ma semplificando molto è un sistema per registrare le informazioni che, secondo i sostenitori della tecnologia, è più sicuro e più pratico da condividere di quelli normalmente utilizzati per i registri informatici.

Ma BitFury non è l’unica azienda che estrae bitcoin in Georgia. Moltissimi abitanti hanno approfittato delle agevolazioni per investire nel settore, e oggi quasi il 10 per cento di tutta l’energia elettrica prodotta nel paese è destinata ai centri di estrazione. Secondo un rapporto dell’anno scorso della Banca Mondiale, circa il 5 per cento delle famiglie in Georgia è coinvolto in un progetto di estrazione. Una conseguenza è che la Georgia ha un consumo pro capite di energia altissimo, circa tre volte più alto di paesi con un PIL pro capite simile.

Secondo il New York Times furono circa 200mila i georgiani che investirono nelle criptovalute allestendo centri di estrazione piccoli e improvvisati, spesso nelle cantine o nei garage delle abitazioni. Tra il 2015 e il 2017 i bitcoin aumentarono di valore al punto che ci furono allevatori e contadini che decisero di investire nelle criptovalute, vendendo il proprio bestiame per comprare computer. Ma la diminuzione del valore dei bitcoin nel corso del 2018 ha messo in crisi queste attività: George Kirvalidze, un 35enne che aveva messo insieme un centro di estrazione insieme a degli amici e che è riuscito a estrarre 20 bitcoin, ha raccontato al New York Times che lo scorso novembre hanno spento 15 dei 60 computer del loro centro, perché era troppo costoso continuare a mantenerli tutti attivi.

Queste difficoltà sono sentite in misura molto minore da BitFury, che continua a godere dell’energia a prezzi stracciati. In tutti i suoi centri nel mondo, si stima che estragga più del 5 per cento di tutti i nuovi bitcoin creati: non si sa di preciso quanti provengano dalla Georgia, ma sono tanti. Per farsi un’idea, il proprietario di una piccola start-up georgiana ha raccontato al New York Times che estrae circa 10 bitcoin al mese con un megawatt di potenza installata. BitFury dice di utilizzare una potenza di 45 megawatt, che in realtà potrebbero essere anche di più. Per questo, in molti hanno accusato il governo di aver favorito eccessivamente la società, facendo pagare il conto ai suoi concorrenti.

Una delle persone che più contribuì agli investimenti georgiani nelle criptovalute fu Remi Urumashvili, un avvocato con molti contatti nella classe dirigente che – dopo essere stato introdotto ai bitcoin dal CEO di BitFury – fece lobbying affinché il governo georgiano concedesse ampie agevolazioni al settore delle criptovalute, sia per quanto riguarda l’estrazione sia per quanto riguarda il cambio con le valute tradizionali. Secondo una voce riportata dal New York Times, a guadagnarci da quest’operazione fu tra gli altri lo stesso Ivanishvili, allora primo ministro e oggi più ricco oligarca del paese, che concesse un oneroso prestito a BitFury per trasferire in Georgia le sue attività.

Oltre ai registri catastali, il progetto del governo georgiano è quello di spostare anche parte dei registri fiscali sulla blockchain. «La trasformazione digitale dell’economia è la nostra priorità, e la sosteniamo in ogni modo possibile» ha detto al New York Times il ministro dell’Economia George Kobulia. Questa strategia è stata adottata per provare a modernizzare il paese e a lanciarne l’economia dopo la complicata transizione dal periodo sovietico alla contemporaneità.