L’unica fabbrica di droni in Italia rischia di chiudere

Il governo e il Parlamento hanno bloccato – senza spiegazioni, e rimangiandosi la parola – un importante investimento in Piaggio Aerospace: ora sono a rischio 1.100 posti di lavoro

(ERIC PIERMONT/AFP/Getty Images)
(ERIC PIERMONT/AFP/Getty Images)

Aggiornamento: l’incontro al ministero dello Sviluppo economico tra i sindacati che rappresentano i lavoratori della Piaggio Aerospace, i proprietari dell’azienda e il commissario straordinario nominato dal governo Vincenzo Nicastro è stato spostato. Si terrà tra il 17 e il 21 dicembre. Giovedì Nicastro ha incontrato per la prima volta i sindacati e insieme all’amministratore delegato dell’azienda Renato Vaghi e alla responsabile delle risorse umane Flavia Mirabelli ha assicurato che a breve saranno pagati sia gli stipendi di novembre che quelli di dicembre.

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Domani, venerdì 7 dicembre, al ministero dello Sviluppo economico si deciderà il futuro dei più di 1.100 operai della Piaggio Aerospace, l’unica società a produrre droni in Italia, che oggi è molto vicina al fallimento. La crisi è precipitata nel corso dell’estate per la decisione del governo e della maggioranza parlamentare di insabbiare e poi bloccare un investimento pubblico nell’azienda da 766 milioni di euro per l’acquisto di 20 droni, approvato prima dalla ministra della Difesa del governo Gentiloni, Roberta Pinotti, e poi confermato dalla nuova ministra Elisabetta Trenta.

All’incontro di venerdì saranno presenti i rappresentanti della proprietà, i sindacati e il commissario straordinario nominato dal governo dopo che due settimane fa i manager della società avevano chiesto l’amministrazione straordinaria, una procedura che rischia di preludere al fallimento. «Ci aspettiamo che il governo mantenga la continuità dell’azienda», ha detto Lorenzo Ferraro, segretario FIOM della provincia di Savona che venerdì sarà a Roma insieme agli altri rappresentanti sindacali. «Il governo deve dare il via al finanziamento», ha proseguito Ferraro. «Non siamo un’azienda fallita, ma una società con capacità e conoscenze, con un prodotto competitivo e con un credibile programma di sviluppo».

Viste le difficoltà incontrate dal governo nel trovare denaro per finanziare le sue promesse più importanti e note, sembra difficile che il ministero guidato da Luigi Di Maio riesca a trovare i 766 milioni necessari ad acquistare i 20 droni da sorveglianza necessari a salvare la società. Ferraro dice di essere aperto anche a un’altra possibilità di cui si è parlato in queste settimane, cioè l’intervento della società Leonardo, l’ex Finmeccanica, la principale società controllata dallo Stato attiva nel ramo della difesa: «L’importante è che Leonardo arrivi per rilanciare l’azienda, non per portarsi via quello che le manca».

Ferraro, come molti altri dipendenti dell’azienda, è orgoglioso della lunga storia di Piaggio Aerospace e delle sue competenze tecniche. Fondata alla fine dell’Ottocento, a partire dagli anni Venti fu la divisione produttrice di aeromobili della Piaggio, la società che nel 1946 divenne celebre in tutto il mondo producendo la Vespa. Nel 1964 il ramo degli aeromobili venne separato dal resto dell’azienda, e dopo quasi trent’anni di successo entrò in una lunga e difficile crisi. La società passò da diverse proprietà, finché nel 2014 non divenne controllata al 100 per cento da Mubadala Development, il fondo di investimento del governo di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.

Il fondo Mubadala ha investito molto nella società, per esempio costruendo un nuovo stabilimento a Villanova di Albenga per sostituire la sede storica di Finale Ligure, entrambe in provincia di Savona. Oggi a Villanova lavorano 850 dei più di 1.100 dipendenti dell’azienda. Con la nuova proprietà la produzione si è concentrata sui droni senza pilota, una tecnologia alla quale gli investitori degli Emirati Arabi Uniti sono particolarmente interessati.

Il primo drone realizzato da Piaggio Aerospace si chiama P.1HH ed è una specie di versione senza pilota del principale aereo per uso civile progettato dalla società. È stato acquistato in sei esemplari dagli Emirati, ma è considerato da alcuni un prodotto non del tutto soddisfacente. Recentemente la società ha iniziato a svilupparne una nuova versione, il P.2HH, con potenzialità giudicate migliori ma ancora molto lontano dalla fase di realizzazione. Sia il P.1HH che il suo successore sono velivoli di grosse dimensioni, con una grande autonomia e la capacità di rimanere in volo fino a 24 ore consecutive. Piaggio, che collabora al progetto con Leonardo, è l’unica società in Italia ad aver realizzato e a mantenere in fase di sviluppo progetti come questi (Leonardo partecipa anche alla realizzazione di un drone con altre società europee e produce da sola un drone più piccolo per missioni a medio raggio).

Mentre questi progetti venivano sviluppati, le difficoltà di Piaggio sono proseguite: lo scorso 30 settembre Piaggio Aerospace aveva accumulato 618 milioni di euro di debiti; nell’ultimo bilancio disponibile, quello del 2016, dichiarava un fatturato di 104 milioni e perdite per 79,5 milioni. Nonostante avesse già investito molto nella società, il fondo Mubadala si è dimostrato disponibile a spendere ancora per realizzare un nuovo piano industriale. Il piano era doloroso, poiché prevedeva la vendita delle attività di manutenzione motori e di produzione di aeromobili civili, per concentrarsi sullo sviluppo e sulla produzione di droni. Il piano conteneva anche un’importante garanzia per il futuro a lungo termine nella società: un investimento da 1,5 miliardi di euro distribuito su 16 anni per lo sviluppo e la produzione di droni P.2HH. Il prezzo chiesto da Mubadala per effettuare il nuovo e cospicuo investimento era la collaborazione del governo italiano, che avrebbe dovuto sostenere metà della spesa impegnandosi ad acquistare 20 droni e le relative stazioni di controllo.

Lo scorso febbraio, la preparazione dei decreti ministeriali per disporre l’acquisto dei droni era stato uno degli ultimi atti compiuti dalla ministra Pinotti. Di solito questo tipo di decreti viene inviato alle camere per ricevere un parere non vincolante da parte delle commissioni competenti, in questo caso le commissioni Difesa di Camera e Senato. Prima del termine dell’esame, però, sono arrivate le elezioni politiche del 4 marzo, e così la procedura è passata in mano al nuovo Parlamento. Inizialmente era sembrato che gli esponenti del Movimento 5 Stelle, il nuovo partito di maggioranza relativa in Parlamento, fossero favorevoli all’operazione. Ad aprile, in una relazione presentata alle commissioni speciali riunitesi in attesa della formazione del governo, il deputato del Movimento 5 Stelle Maurizio Crippa raccomandò che si procedesse all’acquisto.

Da allora però del progetto non si è più saputo praticamente nulla. Una volta insediatesi – solo dopo la lunghissima fase di formazione del governo – le commissioni Difesa hanno dedicato poco tempo al tema, e nonostante siano passati quasi sei mesi non hanno ancora formulato un parere. Il Post ha contattato i presidenti delle commissioni Difesa di Camera e Senato, Gianluca Rizzo del Movimento 5 Stelle e Donatella Tesei della Lega, per conoscere le ragioni della mancata formulazione di un parere. Non è stato possibile ottenere una risposta da Tesei, mentre l’ufficio di Rizzo ci ha chiesto di inviare alcune domande per iscritto che al momento non hanno ancora ricevuto risposta.

Il silenzio delle commissioni risulta particolarmente strano perché lo scorso 20 settembre la ministra della Difesa Elisabetta Trenta, vicina al Movimento 5 Stelle, aveva detto alla Camera che il progetto aveva la sua “piena approvazione“. Trenta però non ha firmato i decreti che avrebbero dato il via al progetto, come invece avrebbe potuto fare visto che il parere delle commissioni non è vincolante. Anche il ministero della Difesa fino a questo momento non ha risposto alle nostre richieste di chiarimenti. Nemmeno Ferraro, il sindacalista della FIOM, dice di conoscere il perché di questi ritardi: «Le ragioni per cui si è deciso di non fare l’investimento non le sappiamo».

«È un treno senza nessuno alla guida lanciato contro un muro», ha detto Franco Vazio, deputato del PD che si è a lungo occupato della vicenda. Vazio ha partecipato alle poche sedute di commissione e riunioni al ministero dello Sviluppo economico che sono state organizzate sulla vicenda. Alle varie riunioni, racconta, si parlava per pochi minuti del problema, che poi veniva accantonato senza arrivare a una decisione. La sua impressione è che gli esponenti del governo e della maggioranza non avessero chiara la portata del problema. «La chiusura di questa azienda, contemporaneamente al crollo del ponte Morandi, rischia di essere una bomba atomica sulla Liguria», dice oggi.

Vazio ha sollecitato risposte dal governo e dagli esponenti della maggioranza, senza ottenere riscontro. Secondo lui la responsabilità principale del blocco dell’investimento appartiene al Movimento 5 Stelle, che a causa delle sue posizioni antimilitariste e contrarie alle spese militari ha preferito trascurare la vicenda finché la situazione non è divenuta ingestibile, e in questo è stato seguito passivamente dalla Lega. È possibile anche che gli esponenti del Movimento ritengano sia meglio tutelare l’occupazione degli stabilimenti senza effettuare il costoso investimento nei droni: ma se questo è il loro piano, finora hanno preferito tenerlo segreto. Contattato dal Post, anche lo staff del ministro Di Maio ha risposto in maniera laconica, assicurando che venerdì, dopo la riunione al ministero, avremo «tutti gli elementi».