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  • Sabato 17 novembre 2018

Le sanzioni americane contro i sauditi sono una cosa seria?

«È stato allo stesso tempo il minimo che potevano fare e il massimo che ci potevamo aspettare»

Il presidente statunitense Donald Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman alla Casa Bianca il 20 marzo 2018 (MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)
Il presidente statunitense Donald Trump e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman alla Casa Bianca il 20 marzo 2018 (MANDEL NGAN/AFP/Getty Images)

Giovedì il governo statunitense ha approvato sanzioni individuali contro 17 persone saudite accusate di essere coinvolte nell’omicidio del giornalista e dissidente saudita Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita a Istanbul lo scorso 2 ottobre. Le sanzioni sono state le più dure adottate finora dagli Stati Uniti contro l’Arabia Saudita per l’omicidio Khashoggi. Venerdì, il Washington Post ha diffuso la notizia che la CIA ha concluso che il mandante dell’omicidio fu il potente principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, alleato degli americani, come da tempo sospettavano oltre ogni ragionevole dubbio i governi occidentali e gli analisti.

Negli ultimi giorni molti si sono chiesti se dietro le sanzioni ci sia una reale volontà del governo americano di punire il regime saudita. La risposta, concordano molti esperti, è no: anzi. Sean Kane, ex funzionario del dipartimento del Tesoro, ha detto a Vox, riferendosi al governo statunitense: «Questo è stato allo stesso tempo il minimo che potevano fare e il massimo che ci potevamo aspettare».

Il tema della reazione statunitense all’uccisione di Khashoggi è molto importante e discusso, soprattutto per la gravità dell’accaduto: Khashoggi era un opinionista del Washington Post, uno dei più grandi giornali statunitensi, ed era residente in Virginia da diverso tempo. Il tema ha inoltre una grande rilevanza politica, perché l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman è considerata un prezioso alleato dal governo Trump, che ha scommesso molto sul giovane principe distanziandosi dalle cautele della precedente amministrazione, quella di Barack Obama, e schierandosi apertamente con i sauditi nella loro storica rivalità regionale con l’Iran.

Nelle ultime settimane Trump ha subìto molte pressioni per punire il regime saudita, alcune provenienti anche dal suo stesso partito: finora il risultato sono state le sanzioni ai 17 sauditi e poco altro. La conclusione dell’indagine della CIA, che si è basata su diverse intercettazioni di bin Salman e dei membri della squadra che ha compiuto l’omicidio, hanno reso ancora più complicata la posizione dell’amministrazione americana, aggiungendo alle molte pressioni quelle della stessa intelligence.

Le sanzioni sono state adottate nel quadro normativo del Magnitsky Act, una legge approvata nel 2012 dal Congresso per punire i funzionari russi responsabili dell’uccisione dell’avvocato Sergei Magnitsky, e il cui campo di applicazione fu poi esteso nel 2016. Oggi il Magnitsky Act viene usato per lo più per punire le violazioni dei diritti umani nel mondo, per esempio impedendo a individui responsabili di vari crimini di accedere al sistema bancario americano e di entrare nel territorio degli Stati Uniti. Queste sono anche le misure che giovedì il dipartimento del Tesoro statunitense ha adottato contro i 17 sauditi accusati di essere coinvolti nell’uccisione di Khashoggi, e che molti hanno giudicato insufficienti e poco efficaci.

Le critiche che vengono mosse alla decisione di applicare questo tipo di sanzioni sono soprattutto due.

Prima: nella lista dei sanzionati sono stati inclusi solo alcuni dei più stretti collaboratori di Mohammed bin Salman che si sospetta siano coinvolti nella vicenda. Uno di loro è Saud al Qahtani, direttore delle operazioni media del regime saudita, accusato di «avere preso parte alla pianificazione e all’esecuzione dell’operazione che ha portato all’uccisione di Khashoggi». La lista però non include alcune persone molto importanti, per esempio Ahmed al Assiri, ex vicecapo dell’intelligence saudita e stretto confidente di Mohammed bin Salman. Assiri, che viene considerato l’architetto dell’operazione all’interno del consolato saudita a Istanbul, ha legami piuttosto solidi con l’amministrazione Trump: per esempio a settembre si incontrò a New York con diversi funzionari americani, tra cui il segretario di Stato americano Mike Pompeo.

Seconda: le sanzioni statunitensi avranno molti pochi effetti su quei cittadini sauditi inclusi nella lista dei 17 che sono già stati messi in carcere e condannati in Arabia Saudita, tra cui Saud al Qahtani. Per cinque di loro è stata decisa la pena di morte.

Finora, quindi, il governo Trump ha cercato in tutti i modi di non prendere posizioni dure verso il regime saudita, mossa che potrebbe pregiudicare l’alleanza tra i due paesi e diversi grossi accordi bilaterali riguardanti la vendita di armi e progetti infrastrutturali. Per farlo è arrivato al punto di contraddirsi ripetutamente e prendere per buoni – o comunque prestare il fianco – i goffi tentativi sauditi di salvare la faccia, cambiando per esempio versione dei fatti diverse volte e non fornendo spiegazioni alternative alle molte informazioni uscite nelle ultime settimane sui giornali turchi e statunitensi. L’obiettivo saudita, in particolare, è stato uno: proteggere il principe Mohammed bin Salman, molto vicino a Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump.

Perché Trump non vuole mollare l’Arabia Saudita

All’inizio di questa settimana, per esempio, il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, aveva detto che le registrazioni dell’omicidio di Khashoggi – quelle che il governo turco ha consegnato agli americani – non mostrano il coinvolgimento diretto nella vicenda di bin Salman. La ricostruzione di Bolton, avevano notato gli esperti, contraddice precedenti dichiarazioni diffuse dalla Casa Bianca e da funzionari sauditi. Questa discrepanza è diventata ancora più evidente dopo la conclusione dell’indagine della CIA, anche se Trump non l’ha ancora commentata.  Già giovedì il segretario del Tesoro, Steven Mnuchin, aveva detto che sarebbero potuti emergere nuovi dettagli sull’omicidio di Khashoggi, e che sarebbero potute emergere nuove responsabilità.

Il motivo per cui il governo statunitense ha deciso comunque di adottare le sanzioni, nonostante la loro limitata efficacia, è stato rispondere in qualche maniera alle pressioni provenienti dal Congresso, che da tempo sta chiedendo alla Casa Bianca di prendere posizioni più intransigenti nei confronti dell’Arabia Saudita. Il regime saudita è criticato sia da Democratici che da Repubblicani per adottare misure repressive contro i dissidenti, compiere sistematiche violazioni dei diritti umani e fare una politica estera molto aggressiva in diversi paesi del Medio Oriente, tra cui lo Yemen. Per ora, comunque, l’intenzione del governo Trump sembra voler continuare a proteggere il principe Mohammed bin Salman.

Giovedì alcuni giornali americani, tra cui Reuters, hanno parlato addirittura di un tentativo dell’amministrazione statunitense di trovare un modo per rimandare in Turchia il religioso turco Fethullah Gülen, che dal 1999 vive in esilio autoimposto negli Stati Uniti e che è indicato dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan come il principale responsabile del fallito colpo di stato contro di lui dell’estate 2016. Sarebbe una mossa con pochi precedenti: l’obiettivo dell’operazione sarebbe convincere il governo turco ad allentare la pressione sul regime saudita, che la Turchia ha individuato fin dall’inizio come il principale responsabile dell’uccisione di Khashoggi. La notizia è stata raccontata da diverse fonti rimaste anonime, ma finora non ha avuto riscontri ufficiali: se dovesse essere confermata, sarebbe l’ennesima prova della precisa volontà del governo Trump di salvare sia Mohammed bin Salman che l’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita, considerata fondamentale dall’attuale amministrazione americana.