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  • Mercoledì 7 novembre 2018

Cosa cambia ora in America

Prima Trump controllava la Camera e il Senato, ora soltanto il Senato: cosa succederà?

di Francesco Costa – @francescocosta

Nancy Pelosi festeggia la vittoria dei Democratici alla Camera il 6 novembre 2018 a Washington. (AP Photo/Jacquelyn Martin)
Nancy Pelosi festeggia la vittoria dei Democratici alla Camera il 6 novembre 2018 a Washington. (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Le elezioni statunitensi di metà mandato si sono concluse con una vittoria del Partito Democratico: non una vittoria travolgente, non un clamoroso ripudio del presidente Trump e delle sue politiche, ma comunque una vittoria. Fino a ieri il Partito Repubblicano e il presidente Trump controllavano Camera e Senato; dall’insediamento del nuovo Congresso, a gennaio 2019, controlleranno soltanto il Senato. È un fatto, ed è un fatto che avrà delle conseguenze.

I Democratici approveranno le loro leggi
Controllando la Camera – e quindi la sua presidenza, e le commissioni – i Democratici avranno il potere di approvare le loro leggi in quel ramo del Congresso. Su alcune cercheranno di trovare un difficile accordo con i Repubblicani, così da permetterne il passaggio al Senato e l’entrata in vigore, ma molte altre le approveranno e basta: non entreranno in vigore, in mancanza del voto del Senato, ma serviranno a mostrare agli statunitensi quali sono le loro priorità in vista delle elezioni presidenziali e legislative del 2020. Con ogni probabilità, per esempio, i Democratici approveranno l’aumento del salario minimo, l’allargamento della copertura sanitaria governativa oggi fornita ai più poveri, una legge contro le emissioni inquinanti, una sull’immigrazione, una che stanzi molti fondi per le infrastrutture, eccetera, e proveranno a incalzare i Repubblicani e metterli nella condizione di dover decidere se rifiutarne la discussione, pagandone un prezzo in termini di popolarità, oppure venire a compromessi, accettando l’approvazione delle proposte-bandiera dei loro avversari.

E bloccheranno le leggi dei Repubblicani e di Trump
La più grande e famosa promessa elettorale di Donald Trump rischia di fare una brutta fine: finché i Democratici controlleranno la Camera, cioè almeno per i prossimi due anni, è davvero difficile pensare che il Congresso possa stanziare i soldi necessari per costruire il muro al confine tra Texas e Messico. Lo stesso vale per una gran parte del resto dell’agenda legislativa del Partito Repubblicano e di Trump: dato che per entrare in vigore una legge dev’essere approvata nella stessa forma sia dalla Camera che dal Senato, il presidente Trump non può più fare progetti senza tenere conto l’opinione dei Democratici. Su certi temi è plausibile che si trovi un accordo (infrastrutture, sanità, tutela della classe media, per esempio) mentre su altri (immigrazione, deregolamentazione finanziaria, tagli alle tasse dei ricchi, diritti civili) non ci sono margini. Il tutto nei due anni che ci separano dalle elezioni presidenziali del 2020.

Il vantaggio per i Democratici è chiaro: Trump non potrà fare molto di quello che ha promesso. Ma questa situazione avrà anche altre tre prevedibili conseguenze. Primo: Trump userà ancora di più gli ordini esecutivi, atti che può emanare in modo autonomo e che hanno immediatamente forza di legge, cercando di estendere ancora di più i già controversi poteri di questo strumento, cosa che potrebbe portare anche a conflitti in tribunale. Secondo: Trump passerà i prossimi due anni ad accusare i Democratici di fare ostruzionismo e troverà così la risposta perfetta per chi lo accuserà di non avere mantenuto le promesse. Terzo: Trump si concentrerà di più sulla politica estera, settore in cui può prendere decisioni anche molto importanti senza dover passare dal Congresso.

Gli accordi necessari saranno complicati
In ogni caso, di tanto in tanto Democratici e Repubblicani dovranno mettersi d’accordo: per esempio per approvare il bilancio, oppure per alzare il cosiddetto “tetto del debito”, cioè permettere al governo degli Stati Uniti di prendere soldi in prestito per finanziare le proprie attività. Ci saranno trattative serratissime dalle quali nessuno vorrà uscire sconfitto, e ognuno sarà convinto che l’intransigenza sia la strategia migliore per mettere in difficoltà l’avversario, e questo porterà a grandi tensioni e forse anche al cosiddetto “shutdown“, cioè l’interruzione delle attività del governo federale.

Ci saranno molte indagini parlamentari
Siccome il potere legislativo ha il potere di verificare e controllare le azioni del potere esecutivo, le commissioni della Camera possono aprire indagini sul governo, acquisendo atti e documenti riservati, chiamando persone a testimoniare: e con ogni probabilità lo faranno, così come i Repubblicani lo fecero con l’amministrazione Obama (ricordate il caso Bengasi?). Ci si attende che le commissioni della Camera indaghino sulle interferenze elettorali della Russia, sulla presunta complicità del comitato Trump, ma anche sui sospetti di corruzione in alcuni membri dell’amministrazione Trump e sulle presunte irregolarità negli affari personali del presidente.

Per andare su un piano più concreto: le commissioni possono tentare di acquisire le dichiarazioni dei redditi che Trump si è sempre rifiutato di diffondere, al contrario di tutti i presidenti moderni che lo hanno preceduto (e le email di Jared Kushner in cui discute dei rapporti con l’Arabia Saudita, e quelle in cui si parla degli aiuti per Porto Rico, e quelle in cui si parla della nomina di Brett Kavanaugh, e le informazioni sulle spese ufficiali dei membri del governo, e quelle sui conflitti di interesse con i business di Trump, eccetera). Al di là delle conclusioni politiche o giudiziarie di queste indagini, saranno sicuramente una grande distrazione e potenzialmente un grande imbarazzo per la Casa Bianca e i Repubblicani.

Si parlerà di impeachment
Da quando si insedierà il nuovo Congresso, i Democratici avranno il potere – se lo vorranno – di iniziare la procedura di impeachment per arrivare alla rimozione di Donald Trump dalla Casa Bianca: basta un voto a maggioranza semplice della Camera, infatti, e un’accusa per una generica “colpa molto grave”. Naturalmente, è tutt’altro che scontato che lo facciano. La procedura di impeachment, infatti, sarebbe destinata a fallire, come sempre accaduto nella storia statunitense fin qui: se può essere iniziata solo con un voto della Camera a maggioranza semplice, per concludersi serve un voto dei due terzi del Senato. Non è mai successo nella storia statunitense, e anzi nel 1998 Bill Clinton ottenne grande solidarietà e popolarità da un’accusa di impeachment – poi fallita – che gli americani considerarono ingiustificata. Ma se ne parlerà, perché tra gli elettori e i parlamentari Democratici c’è chi vorrebbe usare questa opzione anche solo per mettere in difficoltà il presidente, e perché ora, banalmente, l’opzione esiste.

Si discuterà di Nancy Pelosi
Da 16 anni il capo dei Democratici alla Camera è Nancy Pelosi, rieletta ogni due anni dai deputati del suo partito. In questi sedici anni, quando il Partito Democratico è stato in minoranza, Pelosi ne era la capogruppo; quando è stato in maggioranza, Pelosi era lo speaker della Camera, la presidente, cioè la carica più alta in grado al Congresso e la terza persona in linea di successione al potere dopo presidente e vicepresidente. È un incarico di grande visibilità e di grande potere: lo speaker decide a quali leggi dare priorità e a quali no, a quali deputati dare spazio e visibilità parlamentare e a quali no, a quali fare arrivare più fondi dal partito e quali meno.

L’opinione più comune tra i Democratici è che Pelosi – che ha 78 anni, ha origini italiane, è stata la prima donna speaker della Camera e fa la deputata dal 1987, rieletta puntualmente ogni due anni nel suo collegio in California – sia molto brava a fare questo mestiere, ma sia in giro da troppo tempo e quindi la sua immagine pubblica sia compromessa e logora. Pelosi è una californiana distante dalla cosiddetta “America profonda”, è molto impopolare tra gli elettori più moderati – per non parlare di quello che pensano di lei i Repubblicani – e anche l’ala più giovane e radicale dei Democratici pensa che serva una persona nuova che rinnovi l’immagine del partito e non sia così vulnerabile agli attacchi avversari.

Il problema è che l’incarico di speaker richiede una certa esperienza parlamentare e Pelosi non ha un vero successore designato – doveva essere Jim Crowley, sconfitto da Alexandria Ocasio-Cortez alle primarie nel suo collegio – e sembra godere ancora del gradimento dei deputati, anche grazie alle sue doti di abile negoziatrice (un deputato scettico può essere convinto con la promessa di un ruolo in una commissione importante, per esempio). Probabilmente la speaker sarà ancora lei, ma tra i Democratici inizierà presto una discussione delicata.