Chi decide lo spread?

Lo decide chi compra il debito pubblico italiano: banche, assicurazioni e fondi di investimento che ora dovranno decidere se la manovra economica li rassicura o li preoccupa

(MATTEO BAZZI / ANSA)
(MATTEO BAZZI / ANSA)

In questi giorni il governo sta discutendo sulla legge di bilancio per il 2019. Il Movimento 5 Stelle, con l’appoggio non troppo convinto della Lega, vuole spendere parecchio per finanziare almeno una parte delle sue promesse elettorali, mentre il ministro dell’Economia Giovanni Tria vorrebbe mantenere la spesa su livelli più bassi, vicino alla cifra su cui sembra esserci già un accordo con la Commissione europea. Ma più che la reazione dell’Europa, quello che preoccupa molti osservatori è cosa succederà allo spread – cioè la differenza di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi – se a spuntarla saranno Di Maio e il Movimento 5 Stelle.

In altre parole, molti si domandano come una legge di bilancio molto “generosa” sarà accolta dai mercati, cioè l’insieme degli investitori che finanziano il nostro paese prestandogli soldi tramite l’acquisto di titoli di stato. Il nostro debito pubblico (che altro non è che la somma dei deficit di tutti gli anni passati) è già uno dei più alti al mondo e alzare il deficit per il 2019 significa probabilmente farlo crescere ancora. I cosiddetti “mercati” non sono altro che coloro che dovranno decidere se prestare soldi all’Italia sia ancora un buon affare e nel caso quale tasso di interesse chiedere in cambio: lo spread – semplificando – è una misura di quanto i titoli italiani siano considerati un buon affare. A deciderlo sono soprattutto medie e grandi istituzioni finanziarie: banche, fondi comuni, fondi pensione, assicurazioni e fondi specializzati in obbligazioni. I privati cittadini che hanno acquistato direttamente titoli di stato sono infatti molto pochi e possiedono appena il 6 per cento dei circa 2 mila miliardi di euro del debito pubblico italiano.

Ci sono due fasi in cui questi investitori contribuiscono a determinare l’interesse pagato dallo stato italiano sul suo debito. Il primo è nel corso delle aste del ministero dell’Economia a cui partecipano un numero selezionato di operatori specializzati: questo è il cosiddetto mercato primario, quello in cui il governo vende i titoli di stato direttamente agli investitori. Le aste si verificano a scadenze prefissate, in genere una volta a settimana (qui trovate il calendario delle emissioni per il 2018).

Il mercato secondario è quello dove gli investitori si scambiano tra di loro i titoli collocati dal governo. È qui che si formano i rendimenti e gli spread che vediamo cambiare tutti i giorni e che dipendono essenzialmente dal prezzo al quale i vari operatori di mercato vendono o acquistano i titoli di stato. Se molti vendono contemporaneamente, il prezzo dei titoli cala e il rendimento sale; se molti comprano, il prezzo aumenta e i rendimenti scendono. Quando lo stato colloca i suoi titoli sul mercato primario deve tenere conto dei rendimenti che hanno nel mercato secondario e in genere i valori del primo si avvicinano rapidamente a quelli del secondo.

Come abbiamo visto, ad operare in questi mercati sono soprattutto istituzioni finanziarie. Quasi metà dell’intero debito pubblico è di proprietà di banche e assicurazioni, soprattutto italiane, come Unicredit, Intesa Sanpaolo e Assicurazioni Generali (ma quasi tutte le banche e le assicurazioni italiane hanno i portafogli pieni di titoli di stato). Un altro 30 per cento è detenuto da istituzioni finanziarie straniere (di cui solo il 5 per cento ha sede fuori dall’Europa, principalmente negli Stati Uniti e in Giappone). Il restante 16 per cento del debito pubblico è in mano alla Banca d’Italia ed è il risultato dei vari programmi di acquisti da parte della BCE.

Si tratta di un mercato che ha quindi qualche centinaio di operatori principali, tra cui sono poche decine quelli che dettano agli altri linea. Per aver un’idea delle grandezze di cui stiamo parlando, lo stato italiano mette alla asta sul mercato primario tra i 20 e i 30 miliardi di euro di titoli di stato al mese, mentre, nel corso del 2017, sul mercato secondario si scambiavano titoli di stato per un valore di circa 100 miliardi al mese e di circa 5 miliardi al giorno. Nel corso dell’estate questi valori si sono abbassati: a giugno si scambiavano giornalmente meno di 3 miliardi di euro di titoli di stato (di fronte a questi volumi gli acquisti della BCE sono relativamente ridotti: 3,5 miliardi di euro di titoli acquistati sul mercato secondario ogni mese).

Questo significa che anche se gran parte del debito italiano è detenuto da istituzioni italiane che non hanno nessuna intenzione di venderlo, bastano vendite relativamente esigue dagli operatori internazionali per determinare un’impennata dei rendimenti. «Ipotizziamo che io mi trovi ad operare in un contesto in cui il 90 per cento dei titoli di stato è chiuso in una cassaforte e non si può toccare», spiega Mario Seminerio, analista finanziario e autore del blog Phastidio:«Anche vendendo solo l’1 per cento dei titoli rimanenti se non ci sono compratori posso ugualmente distruggere i prezzi».

Questo è quello che è accaduto nel corso dell’estate quando lo spread ha subito un’impennata a causa delle massicce vendite operate dagli stranieri, vendite alle quali le banche italiane hanno potuto fare fronte solo parzialmente. A scatenare le vendite furono le trattative tra Lega e Movimento 5 Stelle che avevano fatto intravedere il timore concreto che il governo puntasse all’uscita dall’euro, un evento che per gli investitori significherebbe la perdita completa o quasi dei loro prestiti all’Italia. Il timore di uno scenario del genere ha quindi spinto chi aveva comprato titoli di stato italiano a venderli, per evitare danni maggiori.

Dal picco raggiunto a giugno e poi di nuovo ad agosto (durante la crisi della lira turca) la situazione sembra essere migliorata. La prossima crisi potrebbe arrivare entro la fine di settembre, quando il governo dovrà pubblicare i numeri della sua manovra per il 2019 e rendere noto a quanto ammonterà il deficit futuro. «Non esistono costanti  per cui sopra il 2,5 per cento di deficit è un disastro e sotto il 2 per cento va tutto bene», spiega oggi Seminerio: «Il problema sono le prospettive di crescita. Se la crescita sta decelerando in tutta l’eurozona e se in Italia decelera più che nel resto del continente come ha sempre fatto, il rischio è che il deficit fissato al 2,5 per cento si allarghi ben oltre quella soglia e a quel punto ritorneranno timori dei mercati per la sostenibilità del debito italiano».

In sostanza, quello che rischia di spaventare gli investitori internazionali e spingerli a liberarsi dei titoli italiani come avvenuto quest’estate non è tanto lo zero virgola di deficit in più o in meno, ma la prospettiva che l’Italia stabilisca oggi un deficit molto ampio e che, nei prossimi mesi, un’economia più debole del previsto finisca con il farlo crescere ulteriormente (il parametro importante è il deficit in rapporto al PIL, quindi se il PIL cala il rapporto aumenta). L’Italia è già oggi un osservato speciale a causa del suo enorme debito pubblico e se si ritrovasse con un deficit fuori controllo in una fase di grave stagnazione economica, sarebbe possibile arrivare al punto in cui il governo non avrebbe letteralmente più il denaro con cui finanziarsi, aprendo così la porta a scenari drammatici, come ad esempio l’uscita dall’euro.