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  • Martedì 31 luglio 2018

Iran sì, Iran no

Tutte le volte che nelle ultime settimane Trump ha cambiato idea su cosa fare con il governo iraniano, dalle minacce di guerra ai negoziati senza pre-condizioni

Donald Trump (SAUL LOEB/AFP/Getty Images)
Donald Trump (SAUL LOEB/AFP/Getty Images)

Donald Trump non è noto per avere idee chiare e lineari in politica estera, ma c’è in particolare una questione su cui ha mostrato di cambiare idea con una frequenza assai notevole: cosa fare con l’Iran e con il suo presunto programma militare nucleare. Nel giro di poche settimane, Trump si è ritirato da un accordo storico che includeva molti paesi europei suoi alleati, ha promesso di usare una forza mai vista se l’Iran non avesse smesso di minacciare gli Stati Uniti, e poi ha offerto al presidente iraniano Hassan Rouhani un dialogo senza pre-condizioni, venendo smentito poco dopo dal suo segretario di Stato, Mike Pompeo.

Quello seguito da Trump, sostengono alcuni analisti, è uno schema molto simile a quello adottato dagli Stati Uniti con la Corea del Nord: alzare i toni rischiando una guerra e poi offrire un dialogo a tu per tu con il leader del paese avversario, attirando l’attenzione dei media di tutto il mondo e cercando di arrivare a un accordo che sembri una vittoria diplomatica.

Ci sono però due cose da considerare. Primo: nonostante il clamore mediatico dell’incontro tra Trump e il dittatore nordcoreano Kim Jong-un tenuto a Singapore lo scorso giugno, non si può dire che gli Stati Uniti abbiano ottenuto qualcosa di veramente significativo dalla Corea del Nord, visto che l’unico vero obiettivo statunitense – la denuclearizzazione – è rimasto un nodo irrisolto. Secondo: l’Iran non è la Corea del Nord e il Medio Oriente non è l’Estremo Oriente. Quello che funziona da una parte – ammesso che funzioni, e ci sarebbe da discuterne – potrebbe non funzionare dall’altra.

Iran no, Iran sì
Da quando si è insediato alla Casa Bianca, nel gennaio 2017, i rapporti tra Trump e la leadership iraniana non sono mai stati buoni. Il punto più basso è stato senza dubbio la decisione di Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano firmato da Obama nel 2015 e definito “storico” per la sua importanza. L’accordo prevedeva una significativa riduzione della capacità dell’Iran di arricchire l’uranio – passaggio fondamentale per la produzione dell’arma nucleare – in cambio della rimozione di alcune delle sanzioni imposte all’economia iraniana negli anni precedenti. Annunciando il ritiro dall’accordo lo scorso maggio, Trump aveva promesso l’imposizione di nuove sanzioni, ancora più dure rispetto a quelle in vigore in precedenza, e aveva minacciato le imprese europee di imporre altre sanzioni contro di loro se non avessero smesso di fare affari in Iran.

Da quel momento le cose sono diventate sempre più confuse e le posizioni di Trump sempre più difficili da capire.

Due settimane dopo l’annuncio del ritiro, il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha fatto una nuova proposta di accordo all’Iran che ha provocato molte discussioni. Pompeo ha messo insieme 12 condizioni che il governo iraniano avrebbe dovuto rispettare per poter firmare una nuova intesa, tra cui un cambio radicale della politica estera iraniana in Medio Oriente, cioè una condizione che non era stata posta nell’accordo precedente proprio per la difficoltà a trovare un punto di intesa tra le parti. Pompeo ha offerto all’Iran la rinuncia delle nuove sanzioni che gli Stati Uniti avevano annunciato, la ripresa delle relazioni diplomatiche bilaterali e dei legami commerciali e l’accesso a tecnologie avanzate. La proposta di Pompeo è stata considerata irricevibile dal governo iraniano, perché era molto più svantaggiosa rispetto a quella precedente promossa da Obama.

Una settimana fa la tensione tra Iran e Stati Uniti si è alzata di nuovo. Trump ha scritto su Twitter, tutto in maiuscolo: «Al presidente iraniano Rouhani: non minacciare mai, mai più gli Stati Uniti o ne pagherai le conseguenze come pochi le hanno pagate nella storia. Non siamo più il paese che tollererà le vostre folli parole di violenza e morte. State attenti!». Trump rispondeva a una precedente dichiarazione del presidente iraniano Rouhani, il quale aveva detto, usando toni molto duri e aggressivi, per lui inusuali: «L’America dovrebbe sapere che la pace con l’Iran è la madre di tutte le paci, e la guerra con l’Iran è la madre di tutte le guerre».

Lunedì, durante la conferenza di stampa congiunta tenuta alla Casa Bianca con il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, la posizione di Trump sull’Iran è cambiata di nuovo: non più una minaccia di guerra, ma una proposta per nuovi negoziati «senza alcuna pre-condizione». La proposta di Trump ha sorpreso diversi osservatori, ma è durata poco, visto che subito dopo Mike Pompeo ha elencato una serie di condizioni che il governo iraniano avrebbe dovuto rispettare per ottenere un incontro con Trump: cambi sostanziali nel modo di trattare la popolazione iraniana, la disponibilità ad accettare un nuovo accordo in grado di prevenire la proliferazione nucleare e la riduzione di «comportamenti maligni» dell’Iran. I funzionari iraniani a Teheran e alle Nazioni Unite, comunque, non hanno risposto alla proposta di Trump, ma il capo dello staff di Rouhani, Mahmoud Vaeiz, ha detto ai giornalisti che lo scorso anno il presidente iraniano aveva rifiutato più volte di incontrarsi con Trump, nonostante le richieste dell’amministrazione americana.

Perché l’Iran non è la Corea del Nord
L’impressione di molti analisti è che Trump stia usando con l’Iran lo stesso approccio già usato nel corso dell’ultimo anno con Kim Jong-un: minacciare la guerra, alzare la tensione e provare così a costringere l’avversario a trattare. È una strategia che non ha prodotto grandi risultati con la Corea del Nord, almeno finora, e che comunque sembra essere poco adatta nel caso iraniano, per almeno due ragioni.

La prima è che l’Estremo Oriente non è il Medio Oriente. Nel primo caso, Trump ha potuto contare sulla volontà di fare la pace del presidente sudcoreano Moon Jae-in, che per mesi ha lavorato intensamente per stabilizzare i rapporti tra le due Coree e per favorire un incontro tra Trump e Kim Jong-un. Nel secondo caso non esiste una situazione simile: come ha detto Trita Parsi, presidente del National Iranian American Council, organizzazione no profit con sede a Washington, sono più di 15 anni che gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente (Arabia Saudita e Israele, per esempio) chiedono agli americani di fare la guerra all’Iran. Senza un mediatore, uno come Moon, il rischio che con un’escalation di tensione si arrivi a uno scontro militare è più alto. Tirare troppo la corda potrebbe non portare a un incontro diplomatico, ma a uno scontro armato di qualche tipo che non farebbe altro che distanziare ancora di più le posizioni dei due paesi.

La seconda ragione, ha spiegato Cliff Kupchan, presidente della società di consulenza Eurasia Group, è che un eventuale incontro tra Trump e Rouhani sembra essere oggi molto improbabile. Le condizioni poste da Pompeo, ma anche da Trump in passato, sono considerate per lo più irricevibili dalla leadership iraniana, con un’ulteriore complicazione: in Iran l’ultima parola sul nucleare e sull’indirizzo di politica estera non ce l’ha Rouhani, a cui Trump ha proposto di incontrarsi, ma la Guida suprema Ali Khamenei, cioè la più importante autorità politica e religiosa del paese. A differenza di Kim Jong-un, però, Khamenei non cerca attenzione mediatica e soprattutto non ha interesse a incontrare Trump, perché mantiene buona parte della sua legittimità grazie allo scontro frontale con gli Stati Uniti, iniziato con la rivoluzione khomeinista del 1979.

Al momento sembrano quindi esserci più ragioni per pensare che la strategia di Trump con l’Iran, se di strategia si può parlare, non funzionerà. Non è solo una questione di interessi economici o valutazioni strategiche: ritirandosi da un accordo già firmato senza che ci fosse alcuna significativa violazione da parte dell’Iran, Trump ha contribuito a creare una situazione difficile da sbrogliare: ha messo in difficoltà quella parte del regime iraniano più disposta al dialogo – cioè il governo di Rouhani, che aveva investito molto nei negoziati con l’amministrazione Obama – e ha rafforzato l’ala più radicale e ostile all’Occidente, cioè quella che fa capo a Khamenei.