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  • Venerdì 20 luglio 2018

Cosa si muove negli Stati Uniti in vista del 2020

C'è fermento soprattutto nel Partito Democratico, le cui primarie potrebbero essere aperte e combattute come non succedeva da decenni; Trump però ha già raccolto moltissimi soldi

I senatori Democratici Cory Booker e Kamala Harris. (Chip Somodevilla/Getty Images)
I senatori Democratici Cory Booker e Kamala Harris. (Chip Somodevilla/Getty Images)

In occasione delle ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, la prima candidatura ufficiale arrivò intorno a metà marzo del 2015, cioè poco meno di venti mesi prima delle elezioni vere e proprie. Le altre arrivarono quasi tutte fra maggio e luglio. La prima candidatura fu quella di Ted Cruz, che poi perse le primarie del Partito Repubblicano: ma a questo giro, con un presidente in carica espressione del Partito Repubblicano, le attenzioni dei media e degli elettori sono indirizzate perlopiù verso il Partito Democratico.

Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts di 69 anni, molto popolare nella base del partito e con idee di sinistra, è considerata la persona nella fase più avanzata della sua candidatura: significa che non ci sta soltanto pensando o che sta sondando il terreno, ma che sta concretamente cominciando a selezionare collaboratori e a raccogliere adesioni e sostegno in quegli ambienti che stanno attorno alla politica statunitense e senza i quali è impossibile mettere in piedi una campagna elettorale su un paese così grande (per esempio gli attivisti locali dei primi stati in cui si tengono le primarie). Il New York Times ha raccontato che i segnali che Warren sta dando nei suoi discorsi pubblici e in quelli privati sono stati molto chiari, e attualmente si sta concentrando soprattutto su compattare il Partito Democratico in vista delle elezioni di metà mandato, con le quali a novembre si rinnoverà parte dei seggi del Congresso.

Elizabeth Warren. (Alex Wong/Getty Images)

Se quelle elezioni andranno bene per i Democratici, il partito potrebbe ritrovare parte dell’inerzia e della vivacità persa dopo la clamorosa sconfitta di Hillary Clinton contro Donald Trump. Chi vorrà provare a candidarsi alle primarie dovrà necessariamente fare un’attiva campagna elettorale per il partito in vista delle elezioni di metà mandato, ed è probabile che il numero di candidati alle primarie dipenderà da come andranno le elezioni di metà mandato: migliori saranno i risultati, più saranno le candidature.

Warren, di una cui candidatura si era parlato con insistenza anche alle ultime elezioni, sta offrendo aiuto in vista delle elezioni e incontrando funzionari locali del partito in Iowa, Nevada e South Carolina, tre fra i primi stati a votare alle primarie. Per ora sta cercando di declinare il suo messaggio politico soprattutto in modo da rivolgersi ai posti più poveri degli Stati Uniti, dice il New York Times.

Ma Warren non è la sola a essere in una fase avanzata della preparazione della propria candidatura. L’ex vicepresidente Joe Biden, che ha 75 anni e si è già candidato due volte in passato, comincerà a fare comizi per diversi giorni a settimana a partire da settembre, secondo alcune fonti del New York Times. Biden sta cercando di stringere legami con politici Democratici più giovani, e ha contribuito a candidare l’alleato James Smith a governatore del South Carolina, dove sta stringendo i rapporti politici più stretti.

Eric Garcetti. (Buda Mendes/Getty Images)

Le persone più vicine a Biden dicono che non è ancora sicuro di candidarsi, e che è consapevole che gli elettori americani si sono allontanati dalle figure istituzionali come la sua; quello che sta facendo, per ora, è fare “come se si candidasse”, così da trovarsi pronto qualora alla fine dovesse decidere di farlo. La dimostrazione di questo atteggiamento è che Biden ha incontrato altri potenziali candidati Democratici, ma invece di convincerli a sostenerlo li ha invitati a decidere se presentarsi alle primarie senza pensare a lui. Tra questi c’è stato Eric Garcetti, 47enne apprezzato sindaco bianco di Los Angeles, che secondo il New York Times ha già detto ai suoi finanziatori che probabilmente ci proverà. Biden ha incontrato anche Steve Bullock, 52enne governatore del Montana, anche lui bianco.

Kamala Harris, senatrice afroamericana della California, di 53 anni, è considerata uno dei possibili “volti nuovi” delle primarie Democratiche. Negli ultimi mesi ha sostenuto diversi candidati afroamericani oppure donne, e si sta costruendo una rete di legami nel partito tra i politici con profili simili al suo. Secondo il New York Times, le sue convinzioni sulla candidatura sono aumentate con l’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato, e con le mobilitazioni delle donne del Partito Democratico contro Trump. Harris è molto critica del presidente e nei prossimi mesi farà parte del gruppo di persone che giudicherà la nomina di Brett M. Kavanaugh alla Corte Suprema, una posizione che le darà visibilità.

Kamala Harris. (Chip Somodevilla/Getty Images)

Nella commissione Giustizia del Senato c’è anche Cory Brooker, ex sindaco di Newark e attuale senatore per il New Jersey, 49enne e afroamericano, da tempo indicato come uno dei volti emergenti del partito. Booker sta concentrandosi soprattutto sugli stati del Sud, storicamente Repubblicani ma con un’alta percentuale di elettori afroamericani. Il piano di Booker è convincere il partito di poter vincere in quegli stati alle presidenziali, sulla scia della sorprendente vittoria del Democratico Doug Jones alle elezioni in Alabama; ma Booker – che è vegano e non è sposato – è considerato “promettente” da ormai molti anni, e la sua grande ambizione ogni tanto sembra trasparire un po’ troppo.

Cory Booker. (Aaron P. Bernstein/Getty Images)

Bernie Sanders, senatore del Vermont che contese a Clinton la nomination Democratica alle ultime presidenziali con un inaspettato successo, è forse la personalità più “pesante” di questa fase di studio prima delle primarie. Nel 2016 ottenne un consenso e una partecipazione straordinari tra gli elettori più giovani e istruiti, prevalentemente bianchi, e ha ormai intorno a sé una consolidata macchina elettorale in grado di raccogliere moltissimi finanziamenti. Una sua candidatura è considerata probabile e potrebbe essere un problema soprattutto per Warren, con la quale condivide parte delle idee in economia, molto di sinistra per gli standard del partito. Su Sanders, i Democratici sono abbastanza polarizzati tra chi crede che il suo messaggio radicale possa essere l’antidoto contro il populismo di Trump e chi crede che invece portare la sfida sullo stesso terreno sia una strategia fallimentare. Anche l’età di Sanders, 76 anni, e il suo profilo “molto bianco”, preoccupano parte dei Democratici, visto che negli stati del sud i loro elettori sono soprattutto non bianchi, e Sanders – che per tutta la sua carriera ha rappresentato collegi popolati prevalentemente da bianchi – ha mostrato di non avere grande esperienza nel parlare con quel segmento di popolazione.

Il panorama che si sta profilando in vista delle primarie del Partito Democratico, quindi, è molto eterogeneo dal punto di vista dell’età, del genere, dell’etnia e delle posizioni politiche: e potrebbe diventarlo ancora di più se le elezioni di metà mandato dovessero andar bene per il partito e se la popolarità di Trump dovesse restare bassa come oggi o scendere ancora. Esiste il rischio – o la possibilità – di vedere più di dieci candidati alle primarie, come era accaduto con i Repubblicani nel 2016, provocando uno sparpagliamento del voto che potrebbe fornire risultati imprevisti. Quello su cui concordano gli osservatori e gli addetti ai lavori, però, è che manca un fenomeno come fu Obama nel 2008, o una figura ingombrante e potente come fu Clinton nel 2016. E il partito è ancora in una fase di grande crisi identitaria: è quindi molto malleabile e più propenso ad adattarsi intorno ai candidati più carismatici. Tutto questo sembra suggerire che saranno primarie aperte e molto combattute: secondo Anita Dunn, esperta stratega politica Democratica, sono le primarie che offrono più possibilità ai nuovi candidati di emergere da quelle del 1980.

Gli esperti dicono che queste condizioni, al momento, sembrano favorire Warren: per il partito sembra essere arrivato il momento di una virata a sinistra, e le mobilitazioni della base del partito sembrano incoraggiare una donna capace di entusiasmare i militanti come Warren. Ma la storia recente insegna che è bene prendere con grande cautela queste previsioni, anche perché bisogna aspettare di vedere quali altri politici Democratici cominceranno a fare sul serio: si parla dell’ex governatore afroamericano del Massachusetts Deval Patrick, considerato uno dei possibili eredi politici di Obama ma che oggi lavora per Bain Capital, il controverso fondo d’investimento che fu guidato da Mitt Romney, ma anche di Mitch Landrieu, ex sindaco di new Orleans, di Kristen Gillibrand, senatrice in forte ascesa negli ultimi mesi, e di Terry McAuliffe, ex governatore della Virginia vicinissimo alla famiglia Clinton.

Intanto, Donald Trump ha raccolto 88 milioni di dollari di finanziamenti per la sua prossima campagna elettorale nell’ultimo anno e mezzo, secondo il New York Times. Il mese scorso il comitato elettorale di Trump e altri due comitati messi in piedi insieme al Partito Repubblicano avevano 53,6 milioni nelle proprie casse, 10 in più del mese precedente e abbastanza per dare al presidente uscente un grande vantaggio sugli avversari del Partito Democratico. A differenza di quanto succede di solito, Trump ha lavorato e investito nella preparazione della sua prossima campagna elettorale ancora prima di insediarsi. Normalmente, i presidenti al primo mandato delegano la pratica al partito almeno fino alle elezioni di metà mandato.

Jeff Flake. (Drew Angerer/Getty Images)

Normalmente le primarie di un partito che esprime il presidente uscente sono una specie di passerella in vista delle elezioni presidenziali: gli sfidanti sono lì praticamente per formalità e per sperare di ottenere un po’ di visibilità (nessuno si ricorda degli sfidanti di Obama alle primarie del 2012, vinte con l’89 per cento dei voti). L’ultima volta che un presidente uscente fu seriamente sfidato alle primarie fu nel 1980, quando Ted Kennedy provò a battere Jimmy Carter. Nel 2020 potrebbe essere diverso, per l’unicità dell’amministrazione di Trump, e per l’ostilità nei suoi confronti di una minoranza dei dirigenti del suo partito (che potrebbe crescere ulteriormente, specie se ci saranno grossi sviluppi nell’inchiesta sulla Russia). I Repubblicani sono molto più indietro dei Democratici nella costruzione delle candidature, che praticamente non esistono ancora nemmeno in una fase embrionale: si fanno i nomi di John Kasich, governatore dell’Ohio e candidato alle primarie del 2016, di Mitt Romney, sfidante di Obama nel 2012 che sarà candidato a senatore a novembre, e di Jeff Flake, 53enne senatore uscente dell’Arizona, ma le possibilità di vittoria sono praticamente nulle vista la presa che Trump ha sulla base del partito e il gigantesco vantaggio economico su tutti gli altri.