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  • Domenica 14 gennaio 2018

Come si costruisce un’icona palestinese

La storia di Ahed Tamimi, la ragazza arrestata per avere schiaffeggiato un soldato israeliano, è più sfaccettata di come forse l'avete letta in giro

(SAID KHATIB/AFP/Getty Images)
(SAID KHATIB/AFP/Getty Images)

Qualche tempo fa diventò virale online il video di una bambina palestinese che gridava e agitava i pugni contro un soldato israeliano. Lo ripresero i giornali di mezzo mondo, i sostenitori più convinti della causa palestinese la definirono un’eroina e lei diventò così famosa da arrivare a incontrare il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, considerato una specie di patrono dei palestinesi. Era il 2012.

Questa storia potrebbe ricordarvi qualcosa, perché si è ripetuta con modalità quasi identiche poche settimane fa. La protagonista e il contesto sono gli stessi di allora ma le conseguenze sono molto più rilevanti, e hanno nuovamente attirato le attenzioni di giornali e tv in giro per il mondo. Stavolta Ahed Tamimi, che ora ha 16 anni, è stata arrestata e rischia il carcere per aver schiaffeggiato un soldato israeliano durante una protesta organizzata a metà dicembre nel villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, dove è nata e cresciuta.

Il fatto che gli eventi si siano ripetuti a distanza di pochi anni racconta già un pezzo della storia: Ahed Tamimi non si è trovata per caso al centro del movimento di protesta anti-israeliana ma fa parte di un sistema collaudato da anni, che per alcuni è una efficace risposta ai soprusi delle autorità israeliane e per altri un sofisticato strumento di propaganda.

Nabi Saleh è un piccolo paese palestinese di circa cinquecento abitanti situato nella cosiddetta zona C, la porzione di Cisgiordania su cui le autorità israeliane hanno maggiore controllo. Molti degli abitanti di Nabi Saleh sono imparentati fra loro e portano il cognome Tamimi. I problemi sono iniziati nel 1977, quando un gruppo di fondamentalisti israeliani fondò la colonia di Halamish dal lato opposto della valle dove è situato Nabi Saleh. Insediamenti come quello di Halamish sono ritenuti illegittimi dalla comunità internazionale, ma da sempre vengono sostenuti e incoraggiati dal governo israeliano. Nel 2008 alcuni coloni israeliani decisero di costruire alcune vasche vicino a una sorgente d’acqua storicamente usata dagli abitanti palestinesi, che possedevano anche alcune terre negli immediati dintorni.

Nel 2009, di conseguenza, gli abitanti di Nabi Saleh organizzarono una prima marcia per protestare non solo contro l’occupazione della fonte da parte dei coloni, ma in generale per la sfinente rete di posti di blocco e controlli a cui sono sottoposti gli abitanti della Cisgiordania che vivono nei pressi di una colonia. Più o meno da allora, le proteste vengono organizzate ogni venerdì dopo la preghiera settimanale per i musulmani. E ogni venerdì, da anni, i soldati israeliani sorvegliano la zona impedendo ai dimostranti di avvicinarsi ad Halamish con l’uso di armi con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua riempiti di “skunk”, un liquido non tossico ma estremamente maleodorante.

Ma i Tamimi non si limitano a protestare e a lanciare qualche pietra. Poco dopo l’inizio delle proteste, l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem decise di donare alcune videocamere agli abitanti di Nabi Saleh per filmare le loro proteste e documentare così i maltrattamenti compiuti dai soldati israeliani. Gli abitanti di Nabi Saleh intuirono quasi subito le potenzialità dei video delle proteste. Nel 2011 le immagini di un soldato israeliano che prendeva per il collo e i capelli una ragazza palestinese circolarono molto e furono riprese persino dal New York Times. L’anno successivo il primo video con Ahed Tamimi, allora bambina, finì praticamente ovunque.

Iniziarono quindi a circolare sempre più video dei bambini e ragazzini del paese, che partecipano attivamente alle proteste. Molto spesso i video vengono diffusi dall’account YouTube gestito da un membro della famiglia Tamimi, oppure rilanciati su Facebook da alcune pagine pubbliche, accusate più volte di diffondere contenuti antisemiti. Una delle più seguite appartiene a una bambina che si fa chiamare “Janna Jihad” e si definisce cugina di Ahed Tamimi. Janna riprende le proteste dei suoi concittadini, le reazioni violente dei soldati israeliani e a volte anche sé stessa che grida e provoca i soldati (anche in inglese, ultimamente, per maggior efficacia con il pubblico internazionale dei video). Negli incontri e interviste che dà ai giornalisti stranieri e sulla sua pagina Facebook, che ha più di 250mila “mi piace”, Janna si definisce una giornalista.

Secondo i critici di questo sistema, gli adulti di Nabi Saleh spingono e incoraggiano i bambini a partecipare alle manifestazioni mettendoli in pericolo – di essere arrestati o feriti – pur di sfruttare il loro candore nel raccontare i soprusi israeliani. Nel primo video che aveva come protagonista Ahed Tamimi, la si vede aspettare l’arrivo della telecamera prima di iniziare a gridare contro il soldato israeliano. L’immagine di una bambina indifesa che grida contro un soldato armato fino ai denti è molto forte, ma è anche artificiosa: il comitato che organizza le proteste a Nabi Saleh ha ammesso di incoraggiare i bambini del villaggio a partecipare alle manifestazioni e a «non aver paura quando sentono degli spari, e durante i raid notturni».

Partecipare a queste proteste pone però i bambini e ragazzi di Nabi Saleh in situazioni di pericolo. A inizio gennaio Mohammed Tamimi, un ragazzo 14enne, è stato colpito in viso da un proiettile di gomma sparato dall’esercito israeliano. Una volta portato in ospedale, è stato operato per sei ore e poi messo in coma farmacologico. Intervistato da Haaretz, ha detto di aver perso parte del proprio cranio e che non potrà uscire di casa per mesi.

La versione degli abitanti di Nabi Saleh è che sia troppo pericoloso lasciare i bambini da soli in casa durante le proteste. Ancora oggi raccontano di una volta in cui radunarono i bambini in un’unica casa durante una manifestazione, e di come l’esercito israeliano abbia attaccato proprio quella casa.

È vero che in questi anni l’esercito israeliano si è occupato di Nabi Saleh e dei Tamimi con particolare violenza. Per rimanere a Mohammed, l’esercito israeliano l’aveva arrestato ad aprile del 2017, facendo irruzione in casa sua alle 2 di notte, per aver lanciato delle pietre durante una protesta. Subito dopo l’arresto era stato interrogato senza la presenza di un avvocato, a differenza di quanto previsto dalla legge israeliana, e poi incarcerato per tre mesi. Le autorità israeliane non hanno mai permesso ai suoi genitori di fargli visita.

Per un abitante di Nabi Saleh queste storie sono la normalità. La madre di Ahed Tamimi, Nariman, è stata arrestata cinque volte e cammina con un bastone da quando l’esercito israeliano le ha sparato a una coscia, nel 2014. Suo padre Bassem, uno dei leader del paese, è stato arrestato in tutto nove volte. Nel 1993, racconta al Monitor, durante un interrogatorio fu picchiato così duramente che rimase in coma per dieci giorni. Rushdi Tamimi, un altro membro della famiglia, è stato ucciso da un colpo sparato dall’esercito israeliano durante una protesta del novembre 2012. A questi episodi si aggiungono i controlli e i posti di blocco in tutta la zona, i raid notturni, le detenzioni senza processo, e tutta una serie di soprusi e violenze che gli abitanti di Nabi Saleh subiscono quotidianamente.

Per alcuni, le manifestazioni di protesta dei Tamimi sono un espediente legittimo per protestare contro un regime brutale e ingiusto. Lo hanno scritto in molti fra cui anche Tikkun, una rivista israeliana di sinistra secondo cui «solamente le proteste più creative e meglio pianificate, e che provano il più possibile ad attirare le attenzioni dei media, possono raggiungere l’obiettivo di impedire a Israele di occupare ancora più terra».

Altri ancora ritengono che i Tamimi abbiano manipolato i bambini del proprio villaggio e che stiano alimentando un circolo vizioso fatto di proteste, provocazioni, video virali da migliaia di visite e condivisioni, indignazioni, nuove proteste, e così via. La storia di Nabi Saleh è stata raccontata decine di volte dai giornali arabi e internazionali, ma in otto anni le condizioni del villaggio non sono cambiate, anzi: probabilmente sono peggiorate. I critici dei Tamimi parlano apertamente di abuso e sfruttamento di minori.

Nel frattempo Ahed Tamimi è diventata una delle icone della resistenza palestinese. Su Facebook le pagine che appoggiano la sua liberazione hanno migliaia di iscritti, il suo profilo viene pitturato su striscioni e bandiere e i più importanti giornali internazionali si stanno occupando del suo processo. Dal giorno del suo arresto Tamimi non ha potuto parlare coi giornali o pubblicare nuovi video. Poco dopo aver schiaffeggiato il soldato durante le proteste del 15 dicembre, sua madre le aveva chiesto in diretta su Facebook Live quale messaggio avrebbe voluto mandare ai suoi spettatori. Tamimi ha risposto così, invitando a un’insurrezione violenta:

«Spero che tutti prendano parte alle manifestazioni, che sono l’unico modo per raggiungere l’obiettivo. La nostra forza è nelle pietre, e spero che il mondo si unisca per liberare la Palestina, perché Trump ha fatto la sua dichiarazione e deve prendersi le responsabilità di ogni nostra reazione. Ciascuno deve fare la sua parte, accoltellando, lanciando pietre o cercando il martirio: dobbiamo unirci perché il nostro messaggio sia ascoltato»