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  • Lunedì 20 novembre 2017

L’Arabia Saudita sa quello che fa in Libano?

Secondo l'analista Emile Hokayem no: ha forzato le dimissioni di Saad Hariri per una «combinazione di potere, ambizione e ansia»

Sauditi di fronte a un grande poster del principe Mohammed bin Salman a Riyad (FAYEZ NURELDINE/AFP/Getty Images)
Sauditi di fronte a un grande poster del principe Mohammed bin Salman a Riyad (FAYEZ NURELDINE/AFP/Getty Images)

Da due settimane in Medio Oriente è cominciata una nuova crisi. Il 4 novembre il primo ministro libanese Saad Hariri ha annunciato in maniera inaspettata le sue dimissioni durante un viaggio in Arabia Saudita, parlando di minacce alla sua vita. Ha accusato Hezbollah, gruppo estremista libanese suo alleato di governo e con stretti legami con l’Iran, di intromettersi troppo nella vita politica libanese, e di essere uno strumento del governo iraniano per condizionare il Libano. Secondo molti analisti, Hariri sarebbe stato costretto a dimettersi dal governo saudita, che da un paio di anni è dominato da Mohammed bin Salman, giovane e ambizioso principe ereditario. MbS, come viene chiamato spesso dai giornali, sta promuovendo significative riforme interne – per esempio ha annunciato l’eliminazione del divieto per le donne di guidare – ma allo stesso tempo sta cercando di rafforzare il suo potere arrestando importanti politici e imprenditori sauditi. L’impressione è che il Libano si sia trovato in mezzo a tutto questo, e in particolare alla competizione regionale tra Iran e Arabia Saudita.

È una storia complicata, che coinvolge diversi paesi del Medio Oriente e che ha come protagonisti governi le cui strategie non sono sempre chiare. Per esempio non si capisce del tutto se dietro alle ultime mosse saudite ci sia effettivamente un piano preciso, o se MbS stia “andando a tentoni”. I dubbi sono molti: le dimissioni di Hariri, per esempio, sembrano avere avuto l’effetto opposto a quello sperato dai sauditi, cioè sembrano avere rafforzato Hezbollah, la forza che l’Arabia Saudita avrebbe voluto indebolire e isolare. Emile Hokayem, esperta di Medio Oriente all’International Institute for Strategic Studies, ha provato a spiegare sul New York Times quello che sta succedendo, dando un’interpretazione piuttosto netta dei fatti. Secondo Hokayem, l’Arabia Saudita non ha idea di come comportarsi con l’Iran, né di quale sia il modo migliore per limitarne l’influenza in Medio Oriente.

Anzitutto, ha scritto Hokayem, c’è da tenere a mente che la nuova aggressività saudita è un fenomeno recente, promosso proprio da MbS. È una risposta alla crescente influenza dell’Iran nei paesi che più contano dal punto di vista politico in Medio Oriente, come l’Iraq e la Siria: «Può anche essere che Teheran non controlli completamente Baghdad, Damasco e Beirut, ma grazie ai suoi alleati e ai gruppi con cui ha legami può influenzare in maniera decisa i loro campi di battaglia e le loro politiche», ha scritto Hakayem. Prima che MbS diventasse la figura più importante e influente della famiglia reale, l’Arabia Saudita aveva mantenuto una politica regionale piuttosto passiva, di fatto lasciando campo libero all’Iran. «Ora la politica estera e di sicurezza dell’Arabia Saudita ha subìto una forte accelerata. Invece che respingere con prudenza l’influenza iraniana e cercare un più ampio appoggio alle sue politiche, l’approccio saudita è stato casuale, inquietante e controproducente – e l’Iran è rimasto comunque un passo avanti».

La nuova politica estera di MbS – considerata piuttosto aggressiva – era già stata messa in discussione in precedenza. Per esempio era stato criticato l’intervento in Yemen contro i ribelli Houthi appoggiati dall’Iran, che finora non è stato decisivo e che ha provocato una delle più gravi crisi umanitarie degli ultimi anni. Il caso del Libano è ancora più eclatante. Per anni l’Arabia Saudita è stato il paese che ha sostenuto le istituzioni libanesi, per esempio dando il suo appoggio al primo ministro Hariri e opponendosi alle più spericolate politiche iraniane nel paese. Quello che è successo nelle ultime settimane, a partire dalle dimissioni dello stesso Hariri probabilmente forzate dal governo saudita, sembra andare in direzione completamente opposta a quello fatto finora e sembra non avere gli effetti desiderati: «Se l’obiettivo è contrastare l’influenza dell’Iran – ha scritto Hakayem – Riyad sta scegliendo il campo di battaglia sbagliato».

Hakayem, in pratica, sostiene che la nuova politica estera saudita non sia criticabile solo per gli effetti destabilizzanti che sta provocando, ma anche perché finora si è dimostrata inefficace. Il Libano e lo Yemen, ha sostenuto, sono paesi di importanza periferica in Medio Oriente: per contare di più è necessario controllare l’Iraq e la Siria, che per diverse ragioni sono più centrali. E qui l’Iran continua ad avere un vantaggio netto sui sauditi, perché si è mosso prima e perché sembra avere le idee più chiare su come e cosa fare.

Questo non significa che negli ultimi anni l’Arabia Saudita sia rimasta completamente immobile. Per esempio per molto tempo ha appoggiato diversi gruppi ribelli in Siria, cercando di far cadere il governo di Bashar al Assad, appoggiato dall’Iran: i ribelli siriani sono però stati sconfitti, almeno i gruppi non jihadisti, e i sauditi hanno perso il capitale che avevano investito nel paese. Anche in Iraq ha provato a contare di più: per esempio ha tentato di portare dalla sua parte un religioso sciita molto radicale e influente, Moktada al Sadr, e ha appoggiato il primo ministro iracheno Haider al Abadi, sperando di ridurre l’influenza dell’Iran. Anche qui, però, sembra che l’Iran sia riuscito a consolidare meglio la sua posizione. Hakayem ha scritto:

«L’Iran ha le reti, le conoscenze, l’esperienza e la pazienza strategica di combattere e vincere le “guerre per procura” a un costo basso, negando sistematicamente il suo coinvolgimento. I sauditi non ne sono capaci, ed è per questo che cercare di battere gli iraniani a questo gioco è pericoloso e costoso. L’Iran ha un’altra forza: ha dimostrato che sarà sempre lì ad aiutare i suoi amici e i suoi alleati sia in circostanze favorevoli che sfavorevoli. L’Arabia Saudita non ha la stessa costanza. Basterebbe chiedere ai ribelli siriani, ai leader tribali iracheni e ai politici libanesi.»

Secondo Hakayem, per contrastare l’influenza dell’Iran in Medio Oriente non sono sufficienti le minacce e le mosse improvvise e non pianificate, come quelle fatte di recente dai sauditi in Libano. È necessario un ampio appoggio internazionale, che faccia pressione sull’Iran da più fronti. Per esempio non basta che ci sia stato un avvicinamento con l’amministrazione americana di Donald Trump, dopo gli anni difficili di Obama: servirebbe stabilire delle politiche comuni tra americani e sauditi, che al momento non ci sono. Il caso del Libano è emblematico: la forzatura delle dimissioni di Hariri e le critiche a Hezbollah non hanno trovato l’appoggio sperato da MbS tra gli alleati occidentali dell’Arabia Saudita, nonostante il governo iraniano sia visto con grande ostilità. «Poche cose sono così esplosive come la combinazione di potere, ambizione e ansia, e a Riyad c’è stato un po’ di tutto questo», ha scritto Hakayem.

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