«Catalunya día I: república de baja intensidad» («Catalogna giorno 1: repubblica di bassa intensità»), titolava ieri il quotidiano Diario. L’autore dell’articolo, José Precedo, si riferiva alla tranquillità di questo primo giorno di autoproclamata Repubblica catalana, dove non ci sono stati incidenti e le cose sono andate avanti come sempre. Solo due giorni fa in Catalogna si approvava una dichiarazione d’indipendenza, subito seguita dalla rimozione dell’intero governo catalano da parte del primo ministro spagnolo Mariano Rajoy. Ieri l’unico momento che ha scosso un po’ l’interesse di cittadini e giornalisti è stata la dichiarazione istituzionale di Carles Puigdemont, presidente catalano rimosso dal suo incarico il giorno precedente: Puigdemont non ha detto granché, a parte invitare i catalani a resistere pacificamente alle misure imposte dal governo Rajoy e chiarire che almeno per ora non intende rinunciare al suo incarico.
Nonostante il deciso intervento del governo spagnolo su quello catalano, e le elezioni anticipate convocate per il 21 dicembre, la situazione in Catalogna continua a essere molto confusa. Non sono chiare le intenzioni degli indipendentisti, per esempio, anche perché l’uso di frasi vaghe e senza effetti è diventato un modo per evitare di essere perseguiti dalla magistratura spagnola per reati come ribellione o usurpazione di funzioni. Nonostante questa apparente tranquillità, ci sono molte cose che si stanno muovendo e vale la pena tenerle a mente per provare a capirci qualcosa di più.
Per cosa potrebbe essere perseguito Puigdemont?
Ieri mattina, dopo l’approvazione definitiva delle misure dell’articolo 155 della Costituzione, Puigdemont ha registrato una “dichiarazione istituzionale” davanti alle scale del governo catalano a Girona, la città di cui è stato sindaco prima di diventare presidente. Il messaggio è stato trasmesso alle 14.30 da TV3, la televisione pubblica catalana, col scritto nel sottopancia “presidente della Generalitat”, cioè del governo catalano. Nel suo discorso, Puigdemont ha invitato i cittadini catalani a resistere pacificamente all’applicazione dell’articolo 155 e non ha accennato al fatto che il giorno prima il governo spagnolo lo avesse rimosso dal suo incarico. Nonostante non si sia qualificato espressamente come “presidente”, il suo messaggio è stato presentato dall’ufficio stampa della presidenza catalana come «una dichiarazione istituzionale del presidente della Generalitat della Catalogna». Secondo alcuni, la procura generale spagnola potrebbe perseguire Puigdemont per il reato di usurpazione di funzioni, previsto dall’articolo 402 del codice penale.
Dopo avere registrato il discorso, Puigdemont ha pranzato in un ristorante centrale di Girona insieme alla moglie e ad alcuni amici. Decine di persone lo hanno applaudito, hanno urlato “president!” e si sono fotografate insieme a lui. Non si sa ancora cosa farà Puigdemont nei prossimi giorni: se rinuncerà al suo incarico, se si presenterà al palazzo del governo a Barcellona o se incontrerà i membri del suo governo – anch’essi destituiti – a Girona.
Puigdemont potrebbe essere indagato anche per avere dichiarato l’indipendenza della Catalogna. La procura generale spagnola sta ultimando le carte per il reato di ribellione, che prevede fino a 30 anni di carcere. Non è chiaro però come finirà: nel codice penale spagnolo la ribellione è legata all’uso della violenza, che nel caso di Puigdemont non c’è stato. A rendere ulteriormente confusa la situazione, ieri sera il governo spagnolo ha detto che accoglierebbe con piacere una candidatura di Puigdemont alle elezioni anticipate.
Che ne è della polizia catalana dopo il 155?
Uno dei grandi temi di cui si è parlato nelle ultime settimane è stato il ruolo della polizia catalana, i Mossos d’Esquadra, nel processo indipendentista. I Mossos sono un corpo di polizia che risponde al ministro degli Interni catalano, ma che allo stesso tempo è obbligato a rispettare gli ordini della magistratura. L’1 ottobre scorso, durante il referendum sull’indipendenza che si è tenuto in Catalogna, i Mossos si sono comportati in modo ambiguo: hanno prestato servizio ma non hanno impedito lo svolgimento del voto, nonostante avessero ricevuto l’ordine dal massimo tribunale spagnolo di sequestrare urne e schede elettorali. Per questa ragione molti si chiedevano: cosa faranno i Mossos se il governo spagnolo attraverso l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione prenderà direttamente il comando del corpo?
Due giorni fa Rajoy ha annunciato la rimozione dal suo incarico di Pere Soler, direttore generale dei Mossos e considerato il “capo politico” del corpo. Prima ancora che fossero approvate definitivamente le misure dell’articolo 155, Soler ha mandato una lettera interna ai Mossos: ha ringraziato gli agenti e ha accettato la decisione di Madrid. Ieri mattina il ministro degli interni spagnolo, Juan Ignacio Zoido, ha annunciato la rimozione dal suo incarico di Josep Trapero, capo dei Mossos diventato molto conosciuto anche all’estero dopo gli attentati in Catalogna lo scorso agosto. Zoido ha detto che Trapero è stato rimosso perché indagato per sedizione dall’Audiencia Nacional, tribunale di Madrid, per i fatti del 20 e del 21 settembre, quando migliaia di persone cercarono di rallentare alcune operazioni della polizia spagnola a Barcellona (la storia è spiegata qui). Anche Trapero, come Soler, ha accettato la misura. Ieri ha mandato una lettera interna ai Mossos dicendo che era stato «un immenso onore» essere a capo del corpo e chiedendo a tutti gli agenti «lealtà e comprensione di fronte alle decisioni prese». Al suo posto è stato nominato il numero due dei Mossos, Ferran López, che ha annunciato che non saranno fatti stravolgimenti nella struttura del corpo.

Josep Trapero, a destra, e Ferran López, nominato a capo dei Mossos dopo la rimozione di Trapero dal suo incarico (JAVIER SORIANO/AFP/Getty Images)
Sembra quindi che il comando dei Mossos sia disposto a seguire le indicazioni del governo di Madrid, almeno per quanto se ne sa ora. Ieri è stata annunciata anche l’eliminazione del servizio di scorta dei Mossos ai ministri del governo catalano, anch’essi rimossi immediatamente dal loro incarico con l’applicazione dell’articolo 155. L’unico che sembra mantenere ancora un servizio minimo di scorta è Carles Puigdemont.
Dobbiamo tenere d’occhio Podemos catalano?
Catalunya Sí que es Pot (CSQP) è una coalizione elettorale formata da Podem – la sezione catalana di Podemos e componente maggioritaria della coalizione – e alcuni partiti minori catalani: è anti-indipendentista ma favorevole a un referendum sull’indipendenza della Catalogna concordato tra governo spagnolo e governo catalano. CSQP è al centro del dibattito politico da giorni. Venerdì, quando nel Parlamento catalano si è approvata la dichiarazione d’indipendenza, tutti i deputati dei partiti anti-indipendentisti sono usciti dall’aula, sostenendo che la votazione fosse illegale. CSQP no: i suoi 11 deputati sono rimasti e hanno votato come tutti gli altri, ovvero scrivendo la loro preferenza su un foglio poi depositato in un’urna posta di fronte alla presidente del Parlamento, Carme Forcadell. Nonostante il voto fosse segreto, in otto hanno mostrato il loro “no” alle telecamere, tre non l’hanno fatto: Ángels Martínez Castells, Joan Giner e Albano Dante Fachin. I tre hanno spiegato di avere votato “no” all’indipendenza ma che volevano al tempo stesso “proteggere” da gravi conseguenze legali i deputati indipendentisti, cioè evitare che fosse provabile in sede giudiziaria chi erano i membri del Parlamento che avevano votato a favore dell’indipendenza.

Albano Dante Fachín, leader di Podem e deputato del gruppo Catalunya Sì que es Pot, al Parlamento catalano (LLUIS GENE/AFP/Getty Images)
Ma non è finita. Ieri mattina la deputata Ángels Martínez Castells, una dei tre che non avevano mostrato il voto, ha scritto su Twitter: «Buongiorno Repubblica», riferendosi alla Repubblica catalana la cui nascita era stata annunciata il giorno precedente; e poi: «il presidente della Repubblica catalana è Carles Puigdemont», che però nel frattempo il governo spagnolo aveva già rimosso dal suo incarico.
Bon dia República! El BOE digui missa: el President de la República catalana és @KRLS https://t.co/jCLU19tEld
— angelsmcastells (@angelsmcastells) October 28, 2017
Poco dopo Dante Fachin, un altro dei tre deputati in questione e leader di Podem, ha dato un’intervista in cui ha detto che partecipare alle elezioni anticipate catalane convocate dal governo Rajoy per il 21 dicembre «sarebbe una enorme contraddizione», visto che il suo gruppo si era sempre espresso contro l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione. Poi ha aggiunto che a causa della «situazione di eccezione» che si sta vivendo in Catalogna non può escludere che il suo partito formerà una coalizione elettorale insieme a Junts pel Sí (gruppo politico di Puigdemont, il più votato alle ultime elezioni) e la CUP (partito di sinistra radicale, che ha appoggiato il governo Puigdemont senza farne parte). In pratica non ha escluso di unirsi agli indipendentisti catalani.
A fine giornata il leader di Podemos, Pablo Iglesias, ha rimesso le cose a posto, se così di può dire: ha detto che la posizione di Ángels Martínez Castells è estranea al partito e ha aggiunto che quelle di Albano Dante Fachin erano solo opinioni personali.
Perché si parla di un Parlamento alternativo degli indipendentisti?
Tre giorni fa il presidente dell’Assemblea Nazionale Catalana (ANC) Jordi Sánchez ha detto che era arrivato «il momento dell’assemblea delle cariche elette». Facciamo un passo indietro. L’ANC è una delle due principali organizzazioni indipendentiste catalane, con decine di migliaia di simpatizzanti e una grande capacità di mobilitare persone alle manifestazioni per l’indipendenza. Sanchez è il leader dell’ANC, ma ora si trova in prigione in via cautelare perché accusato di sedizione, il reato che compie chi impedisce l’applicazione della legge con la forza o con mezzi fuori dalla legge (è lo stesso reato per il quale è accusato Trapero). L’assemblea delle cariche elette (formalmente Assemblea degli eletti della Catalogna, AECAT), è un organo di recente formazione composto da circa 4mila cittadini catalani eletti a qualche tipo di incarico pubblico – in maggioranza consiglieri comunali – favorevoli all’indipendentismo.

Sindaci catalani dell’AMI – un’associazione di sindaci pro indipendenza – dopo un incontro organizzato dall’Assemblea Nazionale Catalana a Barcellona, l’1 luglio 2017. La prima a sinistra, in prima fila, è la presidente dell’AMI, Neus Lloveras; di fianco a lei ci sono il vicepresidente catalano Oriol Junqueras e il presidente Carles Puigdemont, entrambi rimossi dal loro incarico dal governo spagnolo (PAU BARRENA/AFP/Getty Images)
L’AECAT non è riconosciuto da nessuna legge ed è stato creato per sostituire il governo e il Parlamento catalano in caso questi fossero stati delegittimati a continuare a fare il loro lavoro, come nel caso dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione. È dotato di uno statuto, che però finora è rimasto segreto. Secondo i piani dell’ANC, l’organizzazione di Sánchez, «nel caso che il governo o il Parlamento catalani non possano esercitare liberamente le loro funzioni, l’AECAT assumerà la massima rappresentazione legittima, sovrana e istituzionale della Catalogna per completare il processo di indipendenza, la preparazione, l’approvazione e la applicazione delle norme giuridiche della nuova legalità e la convocazione immediata di elezioni costituenti».
Finora non è stato fatto niente di tutto questo e non si sa con certezza se e quando l’AECAT proverà a intervenire nella crisi catalana. Potrebbe non succedere mai, ma c’è da considerare una cosa: i comuni catalani governati da partiti indipendentisti non sono pochi e la partecipazione dei sindaci al movimento indipendentista non è da sottovalutare. Venerdì, il giorno dell’approvazione della dichiarazione d’indipendenza, al Parlamento catalano c’erano decine di rappresentanti locali indipendentisti che hanno acclamato Puigdemont e cantato insieme a lui Els Segadors, l’inno della Catalogna.
Come saranno le elezioni anticipate del 21 dicembre?
Saranno “elezioni autonomiche”, cioè eleggeranno i nuovi membri del Parlamento catalano che a sua volta voterà la fiducia a un nuovo presidente del governo. I tempi sono piuttosto stretti. I partiti che vogliono partecipare alle elezioni devono comunicarlo alla giunta elettorale prima del prossimo 6 novembre, quindi nel giro di una settimana, e devono anche decidere come presentarsi.
I partiti indipendentisti dell’ultima legislatura erano tre: Esquerra Republicana (ERC, di sinistra), Partito democratico europeo (PDeCAT, di centrodestra) e CUP (di sinistra radicale). Alle ultime elezioni, quelle del settembre 2015, ERC e PDeCAT si erano presentati nella coalizione chiamata Junts pel Sì, nel cui programma si parlava esplicitamente di una Catalogna indipendente. Per il momento ci sono molte incognite su cosa decideranno di fare: partecipare alle elezioni convocate da Rajoy significherebbe ammettere implicitamente che l’autoproclamata Repubblica catalana è finita prima ancora di iniziare; rimanerne fuori vorrebbe dire però perdere la possibilità di contare qualcosa.
La CUP, il partito più radicale dei tre, ha annunciato la sua intenzione di ignorare le elezioni e ha proposto una “paella di massa”: non si sa se sia la decisione definitiva.
El 21 de desembre paella massiva insubmisa #SomRepública
— Mireia Boya Busquet (@yeyaboya) October 27, 2017
Per quanto riguarda ERC e PDeCAT, non si sa se parteciperanno alle elezioni, anche se l’ipotesi più accreditata è che lo faranno. Ma soprattutto non si sa se decideranno di unirsi di nuovo in una coalizione con obiettivo l’indipendenza della Catalogna, o decideranno di presentarsi separati. Ci sono invece molti meno dubbi nel blocco anti-indipendentista: si presenteranno sicuramente il Partito popolare catalano (PPC), il Partito socialista catalano (PSC) e Ciutadans, la sezione catalana di Ciudadanos.
Cosa dicono i sondaggi?
Stando a un sondaggio realizzato da Metroscopia per il Pais lo scorso 24 ottobre – quindi prima della dichiarazione d’indipendenza e dell’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione – il 44 per cento dei catalani voterebbe a favore dell’indipendenza in caso di un referendum concordato tra governo spagnolo e governo catalano; il 48 per cento voterebbe invece a favore di una Catalogna parte della Spagna. Se ci fosse un referendum con una terza alternativa, cioè avere una Catalogna parte della Spagna ma con competenze esclusive nuove e garantite, i catalani a favore dell’indipendenza scenderebbero al 29 per cento; quelli per una Catalogna che continui a fare parte della Spagna alle condizioni di ora sarebbero solo il 19 per cento, mentre quelli che sceglierebbero la terza via sarebbero il 46 per cento.

Sondaggio realizzato da Metroscopia per il Pais lo scorso 24 ottobre. Tra le altre cose, è stato chiesto qual è la soluzione preferita tra l’indipendenza, mantenimento dello status quo e una Catalogna dentro la Spagna ma con nuove e garantite competenze esclusive: l’opzione privilegiata è stata la terza, con il 46 per cento delle preferenze degli intervistati
Un sondaggio realizzato dal 16 al 19 ottobre dal Barómetro de Catalunya del Gabinet d’Estudis Socials i Opinió Pública (GESOP) per il quotidiano catalano Periodico ha mostrato come ERC, PDeCAT e CUP potrebbero ottenere insieme la maggioranza assoluta dei seggi del Parlamento, fissata a 68. Vale tenere a mente comunque che il sondaggio è stato realizzato ormai dieci giorni fa, che per la Catalogna equivale a una vita fa. Di mezzo c’è stata una dichiarazione d’indipendenza, l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione e la rimozione di tutto il governo catalano. Un sondaggio più recente pubblicato stamattina dal Mundo mostra ad esempio che ad oggi la coalizione fra ERC, PDeCAT e CUP otterrebbe 65 deputati, tre in meno di quelli necessari per formare la maggioranza. Anche i sondaggi, quindi, vanno presi molto con le molle.