Con il referendum sull’autonomia, la Lombardia otterrà miliardi di euro?

Lo ha detto Roberto Maroni, presidente della regione, ma le cose non stanno proprio così

(ANSA/ UFFICIO STAMPA/ regione lombardia)
(ANSA/ UFFICIO STAMPA/ regione lombardia)

Il prossimo 22 ottobre in Veneto e Lombardia si voterà per un referendum in cui verrà chiesto ai cittadini se vogliono che la loro giunta regionale faccia richiesta allo Stato di ottenere maggiore autonomia. Il referendum è stato molto pubblicizzato, in particolare da Roberto Maroni, presidente della Lombardia. Secondo Maroni, se vinceranno i Sì all’autonomia la Lombardia potrà trattenere sul territorio molti dei soldi delle imposte che attualmente finiscono allo Stato centrale: «Il Sì al referendum sull’autonomia della Lombardia significa portare 27 miliardi in più ai lombardi». Il problema, però, è che non è vero.

Prima di tutto il referendum è consultivo, cioè non produrrà alcun esito vincolante, né per la regione Lombardia né per lo Stato centrale: che vinca il Sì o il No, il giorno dopo non cambierà niente. I referendum consultivi possono servire per cercare di portare a cambiamenti indiretti, mostrando qual è l’orientamento maggioritario della popolazione e sperando che quindi chi ricopre cariche elettive a ogni livello ne tenga conto, ma di per sé non comportano conseguenze automatiche. La frase di Maroni, inoltre, rischia di confondere su qual è il vero scopo del referendum. Per capirlo la cosa migliore da fare è leggere il testo del quesito.

«Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione?»

In altre parole, il referendum serve a chiedere ai lombardi – e ai veneti, in Veneto – se vogliono che la loro giunta regionale invochi il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. È una fattispecie ben precisa, introdotta con la riforma della Costituzione del 2001, che permette alle regioni con un bilancio in equilibrio di chiedere allo Stato centrale di affidargli nuove competenze oltre a quelle che sono affidate a tutte le regioni a statuto ordinario dal famoso Titolo V della Costituzione.

Da qui discendono due considerazioni.

La prima: il referendum non è necessario alla richiesta di maggiore autonomia. La giunta regionale può invocare già oggi l’articolo 116 senza bisogno di consultare i propri abitanti. È quello che dallo scorso luglio sta cercando di fare la regione Emilia-Romagna, guidata dal centrosinistra, che vuole invocare l’articolo 116 ma non ha intenzione di fare alcun referendum. Un voto dei cittadini può dare maggior forza contrattuale alla regione che chiede autonomia, ma di per sé non assicura alcun risultato. Per fare un altro esempio: in caso di vittoria del Sì al referendum nessuno obbligherebbe la prossima giunta della Lombardia, che sarà scelta nel 2018, a perseguire la strada dell’autonomia.

La seconda considerazione è che quindi non esiste alcuna automatismo tra vittoria dei Sì al referendum e la possibilità di trattenere maggiori risorse sul territorio lombardo e veneto. È possibile che in caso di vittoria dei Sì e di successo nelle trattative con il governo la Lombardia riesca a ricevere un po’ più soldi dallo Stato centrale. In quel caso, infatti, alcune attività di cui oggi si occupa lo Stato verrebbero gestite dalla giunta regionale, che quindi probabilmente riceverà le maggiori risorse necessarie a erogare quei servizi. Ma quali saranno le competenze aggiuntive della regione e se e quanto denaro la regione riceverà per gestirle sarà frutto di una lunga e complessa trattativa. È impossibile dire oggi quanto denaro la Lombardia riuscirà ad ottenere o parlare di come quel denaro sarà speso (in un’occasione Maroni invece ha parlato di 30 mila nuove assunzioni in caso di vittoria dei Sì, non si sa bene sulla base di cosa).

Maroni sembra sapere perfettamente queste cose, e infatti ha spesso spiegato che il referendum è in realtà solo una parte di una lunga e complicata battaglia politica che ha l’obiettivo di rendere la Lombardia una regione a statuto speciale. «Il referendum consultivo non ha un effetto immediato ma un grande peso sul piano politico», ha spiegato alcune settimane fa. Nella stessa occasione ha detto anche che in realtà a lui interessa poco di tutto il meccanismo dell’articolo 116: «A me non interessa avere maggiori competenze, quanto maggiori risorse, voglio tenere il 50 per cento del residuo fiscale, con le competenze che ho».

In altre parole lo stesso presidente della regione ha ammesso che il referendum è solo il primo passaggio di una strategia più complessa che impiegherà probabilmente anni a essere completata (dare uno statuto speciale alla Lombardia richiederà eventualmente, tra le altre cose, una modifica alla Costituzione). In altre occasioni, però, Maroni è stato meno preciso e sincero, così come non lo è stata la propaganda della Lega Nord. È legittimo sostenere che la vittoria dei Sì al referendum sarà un passaggio per arrivare, forse un giorno, all’autonomia della Lombardia. Sostenere invece che dal giorno dopo il referendum i lombardi potranno spendere sul loro territorio decine di miliardi di euro che oggi prendono la strada di Roma è una bugia.