L’uomo arrivò in Australia molti millenni prima di quanto pensassimo

Un importante scavo ha scoperto manufatti vecchi di 80mila anni, mettendo in discussione quello che sapevamo sulle prime migrazioni umane

(David Vadiveloo/Gundjeihmi Aboriginal Corporation)
(David Vadiveloo/Gundjeihmi Aboriginal Corporation)

I risultati di uno studio condotto in una grotta del Territorio del Nord, una delle regioni amministrative dell’Australia, suggeriscono che gli antenati degli aborigeni australiani arrivarono sull’isola almeno 65mila anni fa, dai 5mila ai 18mila anni prima di quanto credessimo. Questa scoperta mette in discussioni le principali teorie sulle prime migrazioni degli uomini dall’Africa al resto del mondo, avvenute decine di migliaia di anni fa: il viaggio attraverso il Medio Oriente e l’Asia, che portò i primi uomini in Oceania, potrebbe ora essere retrodatato. La scoperta indica anche che i primi coloni dell’Australia convissero inoltre con la megafauna locale – composta per esempio da diprotodonti e canguri giganti – per circa 20mila anni prima della loro estinzione.

I risultati dello studio sono stati pubblicati su Nature, e si basano su uno scavo alla grotta di Madjedbebe, che è oggetto di ricerche fin dagli anni Settanta. Soltanto negli ultimi anni, però, due diverse spedizioni condotte da Chris Clarkson, docente dell’Università del Queensland, hanno recuperato circa 11mila manufatti fra cui mortai, strumenti per dipingere e pietre levigate. Sono state anche ritrovati i più antichi esemplari di asce in pietra conosciuti, che risalgono a 20mila anni prima rispetto a quelli trovati finora nel resto del mondo. Più in generale, molti manufatti sono stati datati come vecchi di circa 80mila anni, o almeno con il 95 per cento di possibilità di essere più antichi di 70mila anni. Finora le più antiche tracce umane in Australia risalivano più o meno a 60mila anni fa.

Per datare i reperti, i ricercatori hanno studiato gli strati di sabbia e terreno che li ricoprivano: per quelli più superficiali è stata utilizzato il metodo del carbonio-14, una tecnica di datazione utilizzata per i materiali organici, e che può spingersi fino a 50mila anni di età. Per gli stati più profondi – la maggior parte dei reperti era a circa 2,5 metri di profondità – è stata utilizzata una tecnica conosciuta come luminescenza stimolata otticamente, che misura l’ultima volta che il terreno è stato esposto dalla luce del sole. Per capire come funziona questo metodo, è utile pensare a un granello di sabbia come a una batteria scarica, che lentamente accumula energia quando è sottoterra: isolando il granello di sabbia e mantenendolo al buio, i ricercatori possono estrarne e misurarne l’energia con la tecnologia laser. Il dato viene poi confrontato con la quantità di radiazioni a cui è stato esposta la sabbia in quello strato, e calcolare l’ultima volta che è stata esposta alla luce del sole. Questo significa che i ricercatori hanno dovuto lavorare al buio, sfruttando solo le luci a infrarossi, per non compromettere la misurazione, che ha interessato 28.500 singoli granelli di sabbia e che sono state svolte anche da altri due laboratori, per avere una conferma indipendente.

Jean-Luc Schwenninger, capo del Luminescence Dating Laboratory all’Università di Oxford e che non ha partecipato allo studio, ha detto che la misurazione è affidabile, ed è una prova convincente del fatto che l’uomo arrivò in Australia 65mila anni fa. Ha anche aggiunto che gli sembra una stima conservativa, e che crede che la data possa essere spostata ulteriormente indietro in futuro. Lo studio è stato reso possibile da un accordo tra i ricercatori e i Mirarr, il popolo aborigeno che vive nell’area della grotta di Madjedbebe e che finora aveva l’esclusiva su tutti gli scavi.