Le critiche alla legge sul reato di tortura

Come è stata cambiata la prima versione della legge presentata quattro anni fa dal deputato del PD Luigi Manconi, e perché il risultato finale ha lasciato molti insoddisfatti

Polizia in assetto antisommossa , Brescia,
 2 febbraio 2017 (LaPresse / Davide Spada)
Polizia in assetto antisommossa , Brescia, 2 febbraio 2017 (LaPresse / Davide Spada)

Dopo quattro anni di discussioni, modifiche e rinvii, da mercoledì 5 luglio l’Italia ha una legge sul reato di tortura. Il testo (di iniziativa parlamentare, a prima firma di Luigi Manconi del PD, e risultato dell’unificazione di altri disegni di legge) è però molto diverso da quello presentato all’inizio del suo percorso parlamentare ed è stato criticato da diverse associazioni che si occupano di tortura, dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Nils Miuznieks, e dallo stesso Manconi, che ha parlato di «testo stravolto». Secondo i critici, il nuovo testo rende di fatto la legge quasi superflua e inapplicabile in molti casi gravi (per esempio quelli legati al G8 di Genova). Cosa è successo?

Il testo originale
Il disegno di legge sul reato di tortura era stato presentato da Luigi Manconi nel marzo 2013, era composto da quattro articoli, introduceva il reato di tortura e lo rendeva punibile con la reclusione da 4 a 10 anni. Il primo articolo, il più importante, diceva:

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, è raddoppiata se ne deriva la morte.

Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente».

Il disegno di legge era arrivato in commissione Giustizia del Senato il 22 luglio 2013. Era stato approvato dal Senato nel 2014 e alla Camera nell’aprile 2015, però con alcune modifiche. Era quindi tornato al Senato, e dopo alcuni rinvii era stato riapprovato con ulteriori modifiche; mercoledì 5 luglio è stato infine approvato con lo stesso testo alla Camera, diventando legge (una proposta di legge diventa legge solo quando viene approvata con lo stesso testo sia dalla Camera che dal Senato). In tutti questi passaggi la legge era stata cambiata rispetto alla proposta iniziale: qui le modifiche del testo.

Il nuovo testo
Il testo approvato ieri, all’articolo 1, dice:

Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.

Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà.

Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo.

Le differenze e i problemi
Nei vari passaggi il testo originale è quindi molto cambiato ed è stato via via ristretto il suo scopo. In primo luogo, il reato è passato dall’essere un “reato proprio” – applicabile solo a persone con una certa qualifica – all’essere un “reato comune”, applicabile a qualsiasi persona: se prima il reato si riferiva al “pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio”, ora si riferisce a “chiunque” lo commetta, ed è una differenza non da poco. Il problema è che il reato di tortura, come indicato dalla Convenzione delle Nazioni Unite ratificata dall’Italia nel 1989, dovrebbe servire a punire specificamente i casi di abuso di potere e non qualsiasi tipo di comportamento violento tra privati cittadini (comportamenti simili da parte di privati cittadini erano già punibili da altri articoli del codice penale). Per questo motivo, secondo alcuni critici, la legge approvata ieri potrebbe essere incostituzionale, poiché non in accordo con i trattati internazionali sottoscritti dall’Italia.

Nel nuovo testo la possibilità che il reato sia commesso da pubblici ufficiali è inserita al secondo comma ed è soltanto un’aggravante del reato, ulteriormente attenuata – come indicato dal comma successivo – «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti».

In secondo luogo, il testo approvato in via definitiva dalla Camera prevede che il reato si verifichi se ci sono “violenze e minacce” (al plurale, e non al singolare come in precedenti versioni del testo) e se “il fatto è commesso mediante più condotte”. Questa differenza, è stato fatto notare, potrebbe non rendere applicabile la nuova legge in casi di singoli episodi di violenza. Manconi ha detto: «Il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito». Secondo alcune interpretazioni, il requisito di “più condotte” porterebbe anche alla conseguenza di escludere la rilevanza penale come “tortura” di un’unica condotta protratta nel tempo. Nelle Convenzioni ONU i trattamenti sono definiti semplicemente come inumani o degradanti, e non occorrono più condotte o contesti così precisi come quelli previsti dalla nuova legge italiana.

La terza differenza è il passaggio da «cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche» a «cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico». I critici della nuova legge sostengono che questo cambiamento – la specificazione che il trauma debba essere verificabile – creerà grossi problemi rendendo la legge molto meno efficace.

Le critiche
Manconi ha detto: «Il primo giorno della legislatura, il 15 marzo del 2013, presentai un ddl sulla tortura. Quanto accaduto in questi anni è stato lo stravolgimento di quel testo che ricalcava lo spirito profondo che aveva animato le convenzioni e i trattati internazionali sul tema. E le modifiche approvate lasciano ampi spazi discrezionali perché, ad esempio, il singolo atto di violenza brutale di un pubblico ufficiale su un arrestato potrebbe non essere punito. E anche un’altra incongruenza: la norma prevede perché vi sia tortura un verificabile trauma psichico. Ma i processi per tortura avvengono per loro natura anche a dieci anni dai fatti commessi. Come si fa a verificare dieci anni dopo un trauma avvenuto tanto tempo prima? Tutto ciò significa ancora una volta che non si vuole seriamente perseguire la violenza intenzionale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio in danno delle persone private della libertà, o comunque loro affidate».

Al Post, Manconi ha aggiunto che il reato di tortura sarebbe dovuto servire per proteggere i cittadini dagli abusi di potere, in situazioni iniziate magari nella legalità ma poi diventate violente e illegali. Non ha fatto riferimento soltanto alle violenze della polizia, ma per esempio anche a quelle di un medico su un paziente, sul quale il medico aveva l’autorità di imporre trattamenti leciti diventati poi una violenza.

Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova e pm nel processo per le violenze alla scuola Diaz durante il G8 del 2001, ha spiegato che gran parte degli atti commessi alla scuola Diaz, se giudicati in base alla nuova legge, non sarebbero di certa interpretazione come torture. Nell’aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo condannò l’Italia proprio per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz, dove secondo i giudici le azioni della polizia ebbero «finalità punitive» con una vera e propria «rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime». La Corte parlò quindi di «tortura» e invitò l’Italia a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte».