La deposizione di Jeff Sessions

Il ministro della Giustizia statunitense è stato interrogato sui rapporti con la Russia dalla commissione del Senato, e ha negato tutto

Jeff Sessions durante la deposizione di ieri (BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)
Jeff Sessions durante la deposizione di ieri (BRENDAN SMIALOWSKI/AFP/Getty Images)

Il Procuratore Generale degli Stati Uniti Jeff Sessions – ruolo corrispondente a quello di Ministro della Giustizia – è stato interrogato martedì dalla Commissione sull’Intelligence del Senato nell’ambito delle indagini sulle possibili ingerenze russe nella campagna elettorale presidenziale del 2016, quella che ha portato all’elezione di Donald Trump. Sessions, nominato dallo stesso Trump, è stato ascoltato sui suoi presunti incontri con l’ambasciatore russo – sul cui numero e le cui modalità è stato di nuovo ambiguo – e più in generale sulle cose che il deposto capo dell’FBI James Comey aveva raccontato alla Commissione la settimana passata, implicando comportamenti censurabili o sospetti da parte dello stesso Trump rispetto alle indagini dell’FBI sulla questione russa.

Sessions non ha concesso niente alle accuse, negandole tutte sia nella sua deposizione preparata (dove ha parlato di “bugie odiose”)  sia rispondendo alle domande successive dei senatori, che raramente lo hanno messo in difficoltà, benché molte delle sue risposte siano state dei disinvolti “non ne ho ricordo”. I senatori – molti ex colleghi di Sessions, che era stato senatore – lo hanno interrogato per due ore abbondanti, con i Democratici naturalmente più aggressivi e i Repubblicani più indulgenti o persino solidali: il momento meno convincente di Sessions è stato quando ha rifiutato di rispondere ad alcune domande sulle sue conversazioni con il presidente Trump a proposito dell’inchiesta sostenendo che il suo rifiuto sia legalmente legittimato dall’ipotesi che “in futuro” Trump possa invocare il proprio diritto presidenziale a non rivelare le circostanze in questione: legittimazione molto fantasiosa secondo molti osservatori. Mentre la contraddizione che i suoi avversari gli stanno contestando di più è quella tra l’essersi a suo tempo astenuto dall’inchiesta, in quanto coinvolto, e avere però ammesso di avere partecipato alla decisione di licenziare Comey da capo dell’FBI, licenziamento che secondo gli stessi critici è da considerare in diretta relazione con l’inchiesta.

Sulle accuse circolate sui media di incontri con responsabili delle istituzioni russe durante alcune tappe della campagna presidenziale, Sessions le ha in parte negate e in parte ha sostenuto di non averne memoria citando la grande quantità di persone con cui ha avuto conversazioni durante gli eventi pubblici della campagna.
Sulle preoccupazioni di James Comey a proposito dell’irritualità di alcune conversazioni private impostegli dal presidente Trump, su cui Comey aveva raccontato di avere informato Sessions senza riceverne rassicurazioni, Sessions ha confermato che Comey gliene avesse parlato ma ha detto di avergli invece risposto in modo rassicurante, suggerendogli di comportarsi come il suo ruolo gli imponeva. Sessions ha infine detto di non essere a conoscenza di nessun progetto di estromettere il Consigliere Speciale incaricato dell’inchiesta, Robert Mueller, progetto che era stato citato in giornata dal New York Times riportando come fonte “un amico ” del Presidente Trump.