• Libri
  • Domenica 28 maggio 2017

«Marianna sì che è un nome da ciclista»

Una delle tante storie affascinanti del ciclismo italiano è quella di Alfonsina Strada, la prima donna a correre il Giro d'Italia: il drammaturgo Stefano Massini le ha dedicato un racconto

Tra le grandi storie dei Giri d’Italia ce ne sono diverse che si presterebbero a diventare un film: una di queste è sicuramente quella di Alfonsina Strada, la prima donna a correre il Giro, nel 1924. Non è ancora diventata un film, ma un racconto sì: l’ha pubblicato una casa editrice nata da poco che si chiama Il dondolo. È una casa editrice particolare per diversi ragioni: pubblica solo ebook, li distribuisce gratis e appartiene a un comune, il Comune di Modena. Tutti gli autori che hanno pubblicato un testo con Il dondolo sono di Modena oppure hanno scritto qualcosa su Modena. Il racconto su Alfonsina Strada si intitola Un quaderno rosa e lo ha scritto Stefano Massini, regista, drammaturgo e consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano. Massini – che attualmente è candidato al premio Campiello con il romanzo Qualcosa sui Lehman – non è di Modena, ma Alfonsina Strada era di Castelfranco Emilia, che è in provincia di Modena. Pubblichiamo qui l’incipit di Un quaderno rosa.

***

Oggi, alle ore venti e trentatrè del 1 giugno 1924, avviene qualcosa di ridicolo. Io, Alfonsina Maria Morini – di anni 33 come quelli del buon Cristo in croce – inizio a imbrattare d’inchiostro questo quadernino rosa con sopra lo stemma del Giro d’Italia. È tutto quello che ho vinto, oggi, al traguardo di Milano: “Felicitazioni, signora: un omaggio floreale e un quadernino rosa.” Per giunta minuscolo: e infatti ecco, la prima facciata è già riempita, tocca voltar pagina.

Il quadernino rosa è tutto quello che mi porto a casa da quest’impresa. Mi è costata fatica, sudore, nervi e quattro ferite che sanguinano ancora. Non male se adesso, come ricompensa, tengo fra le mani trenta paginette di rosa stinto. E visto che non ce la faccio proprio a prender sonno, non sarà male se butto giù un paio di ricordi, come mi sono promessa. Dicono che fare ogni tanto il punto di se stessi faccia bene. Perfetto: farò l’inventario di Alfonsina in questi foglietti da cameriera.
Mica male.

Il fatto è che giorni fa, cadendo là a bordo strada nella sesta tappa del Giro, ho provato all’improvviso il terrore di perdere ogni ricordo. E mi sono vista come Giosuè al paese. Sissignore: c’era un vecchio col naso rosso, quand’ero bambina a Castelfranco. Lo chiamavano Giosuè, sedeva all’osteria anche al mattino presto. Nessuno siede all’osteria al mattino presto: solo i mariti cacciati dalle mogli, solo il prete se ha bevuto troppo. Tutte e due queste categorie poi tornano comunque a casa. Lui no: lui restava. E nessuno si stupiva, tutti sapevano di quel giorno – tanti anni prima – che era passato per il paese con un carro. Nessuno sapeva da dove venisse. Fatto sta che il caldo gli annebbiò la testa – succede a volte nella Bassa Padana -, e cadde giù come una pera da un ramo. Fin qui niente di strano. Ma nel cadere Giosuè ebbe la sfortuna di trovare giù per terra un sasso, messo lì giusto giusto perché lui ci sbattesse la testa. Succede. È la stessa regola tremenda che sulla carreggiata larga della strada fa incontrare alla tua ruota un piccolissimo chiodo mentre pedali. Sembra impossibile, ma quante volte in bicicletta ho preso l’ago nel pagliaio? L’ultima volta là in Abruzzo sette giorni fa, e in pieno Giro sentire la ruota che sbanda ti fa sputare di rabbia, soprattutto se piove, soprattutto se la strada è fango. Insomma, anche Giosuè forò la ruota, a modo suo: invece del chiodo trovò il sasso e ci batté la testa. Fu così che si dimenticò ogni cosa: chi era, da dove veniva, perché era a Castelfranco. Basta. Zero. E siccome nessuno più lo cercò, rimase per tutta la vita là, seduto all’osteria anche al mattino presto.
Ecco: Giosuè di Castelfranco mi è venuto d’un tratto in testa mentre come un sacco di patate rotolavo a terra su quella curva maledetta: se il rotolio si fosse interrotto al battere del mio cranio su un sasso? Terrore. E dal terrore, mi è venuta voglia di mettermi per scritto.

Ah sì. Io – Alfonsina Strada nata Morini – sento bisogno di mettermi il più possibile nero su bianco. E non per gli altri, che tanto non capiscono mai nulla. No: lo faccio per me. E anzi, sai che c’è? A me stessa mi rivolgo: scrivo queste pagine in rosa affinché tu, Alfonsina, possa trovare all’evenienza tutto scritto, e sapere sempre chi sei anche se sbatti contro un sasso. Ti pare poco? Se Giosuè si fosse messo per iscritto, non sarebbe stato anni e anni seduto all’osteria perfino al mattino presto.
Mica male.

Non si è soli se si è almeno con se stessi. La frase è bella, la diceva la sorella di mia padre, Enza, che un libro nella vita l’aveva letto. Era un libro della signora Invernizio. Nientemeno. E siccome l’Enza Morini si era letta tutto quel libro, era la mente bella della famiglia. Mio padre più volte diceva: “Parla con tua zia, lei capisce, ha quel certo culto”. Ecco: il culto credo volesse dire cultura, e la cultura era quel libro. A volte mi chiedo se l’avesse letto per davvero, o se fosse tutta una storia per far finta d’esser una donna con gli occhiali, lei che gli occhiali non ce li ha mai avuti perché le figlie dei contadini ci vedono benissimo. Chissà. Di frasi notevoli però ne diceva, zia Enza, e questo è un fatto. Non si è soli se si è almeno con se stessi. Questa era una delle più riuscite. Temo copiata pari pari dalla signora Invernizio, che comunque nel suo mestiere l’avrà messo in conto d’essere copiata, come misi in conto di spezzarmi l’osso del collo pedalando. Non si è soli se si è almeno con se stessi. Da piccola non la capivo, ero come mio padre che non si faceva una ragione di perché certa gente leggesse tanti libri poco utili. Di ritorno dalla fiera del bestiame mi disse una volta “Tutti in città parlano della “Cieca di Sorrento”, eppure è gente che ci vede e sono tutti di Modena.” Io ragionavo come lui. E infatti il primo libro che lessi fu il manuale del biciclo francese: mi serviva. Poi cambiai. Col tempo. Afferrai che zia Enza e la sua compare Invernizio qualcosa da dire ce lo potevano avere. Per esempio, non si è soli se si è almeno con se stessi: girando la frase, vuol dire che se non hai nemmeno te stesso, è una brutta storia. Magari è per questo – per zia Enza – che a un paio di chilometri da Fiume, alla terzultima tappa del Giro, mi è venuto come un baleno: se da qualche parte scriverò chi sono, non sarò mai del tutto sola. E siccome ci sono volte che ti basta un pensiero – uno solo, purché sia un pensiero amico – per darti la forza sui pedali, sentii subito che la cosa di scrivermi mi piaceva, era un lampo di quelli buoni. E infatti: mi sono o non mi sono rialzata sulle gambe in direzione Fiume? E dai, con più forza ancora, verso l’Istria.
Mica male.

Quando apro i miei cassetti voglio trovarli pieni. Quest’altra frase poteva essere benissimo un’altra di zia Enza. Ma no, non è sua, è di mia madre. La Gina, come la chiamavano un po’ tutti. E più d’uno pensava che Gina stesse per Luigina, tanto che perfino sul mio foglio del battesimo don Remigio ci scrisse Luigina Marchesini. No davvero: non aveva neanche un po’ la faccia da Luigina. Si vedeva lontano un miglio che era una Virginia, e il nome le veniva perché mia nonna – che non riparava a buttar fuori figli come conigli – si augurava appunto che almeno lei, la figlia femmina, restasse a lungo vergine. Me lo confidò, una volta. Segretamente: “Bimba mia, ma questa cosa della bicicletta non è che a forza di battere là sotto ti fa restare senza figli?” Le risposi che in tutta franchezza non lo sapevo. Poi stetti zitta. E aggiunsi: “Forse però sì”. Alla qual cosa nonna Lia non si scompose, non mi maledisse come fossi una femmina snaturata. Anzi. Sorrise come mai l’avevo vista fare. E fu lì che mi disse perché mia madre si chiamava Virginia.

Ma che stavo dicendo? Ah. Quando apro i miei cassetti voglio trovarli pieni. Mia madre lo diceva spesso, perché di cassetti ne aveva solo due, piccoli, laterali, nella credenza di casa. Quei due cassetti erano tutti suoi. Guai ad aprirli. Guai a guardarci dentro. Erano cosa sua. Non aveva nulla che fosse così suo nel resto della casa: tutto apparteneva a tutti, e difatti dormivamo a rotazione fra le brande vere e quelle messe insieme sulla paglia, sera per sera: “Preparate per la notte” voleva dire “Inventatevi i letti che non ci sono”. E li inventavamo, infatti. C’era comunione di tutto in casa Morini, insomma, perfino del dormire. E fu la ragione per cui mio padre – il Carletto – non fu mai fino in fondo di sinistra: il socialismo ce l’aveva in casa, e qualche dubbio gli sorgeva. Quanto a don Remigio, nemico giurato di Turati e della Kuliscioff, una volta passò per caso dalle nostre parti e con faccia serissima chiese di poter portare i suoi fedeli da noi, là, al casolare, perché lo vedessero il signor socialismo che cos’era, toccassero con mano. Gli fu detto di no, ma tentò più volte. E quando si seppe che andavo in bicicletta, pare commentò “La donna sta al socialismo come le more ai rovi e le rose alle spine”: mi sa che pure lui copiava dall’Invernizio. Ad ogni modo: in terra socialista, mia madre – reazionaria amica dei preti – difendeva a oltranza la proprietà privata di due cassetti. E manco Nostro Signore sa cosa ci tenesse. Per togliere a chiunque – ed eravamo dieci figli – la voglia di andarci a guardare, ripeteva giorno e sera “Quando apro i miei cassetti voglio trovarli pieni”, e con questo diceva che si sarebbe accorta, immediatamente, se mancava qualche cosa. Una cosa cattiva? No, una cosa da capitalisti. Mia madre lo era. Pezzente ma capitalista. Dice: le due cose non stanno insieme. E io? Non sono donna e ciclista? Quindi zitti. Mica male.

Dirò di più, ho preso da mia madre: quando apro i miei cassetti voglio trovarli pieni, e per cassetti intendo quelli dei ricordi. Che poesia. Sembro zia Enza, con tutto che il suo libro non l’ho letto. Per cui, Alfonsina cara, ascoltami bene: se la testa non ti segue più, cerca in questo quadernino rosa. E rileggilo, dammi retta, perché questa roba che ho scelto di scrivere fa di te chi sei. Senza questo quaderno sei solo un corpo, e dei corpi non mi fido, sono cose bastardissime, che in piena gara ti fanno saltar fuori un crampo ai polpacci quando meno te lo aspetti. Non è andata così, dieci giorni fa, prima del traguardo a Taranto? Non hai odiato le tue gambe come fossero di un altro? E la pancia? Ti puoi fidare di quella? A futura memoria sappi che da Caserta a Napoli ho vomitato due volte, senza mai scendere dai pedali, e l’acido in gola me lo sento ancora adesso. Non parliamo di corpi, allora: sono roba difettosa, sono solo trappole.
Facciamo così: fingerò che tu di te stessa non sappia più niente. Come Giosuè, seduto all’osteria al mattino presto. E dunque. Voglia il Cielo che tu non abbia bisogno di leggere anche questo, io però lo scrivo. Per prudenza. Ti chiami Alfonsina Morini. Il tuo nome non ti è mai piaciuto, fino da piccola, ti sembrava il nome di un pesce. Giuro di aver sentito una volta un pescivendolo di San Cesario dire a una vecchia “L’Alfonsina gliela incarto: se la cucina con cipollotto e salvia.” È uno dei ricordi più terribili di quando ero bambina. Forse era un incubo, di quelli che fai di notte. O ancora peggio, di quelli che fai a occhi aperti, e che poi per tutta la vita ti sembrano veri. Ogni volta che a fine di una gara sento leggere il mio nome in graduatoria, una fitta al cuore mi uccide che nemmeno l’austriaco là a Sarajevo. E se mi piazzo ultima, il maggior dolore non è stare in fondo, ma sentire quel suono là da pescheria. Se poi la gara va meglio, non è che cambi molto, e non c’è medaglia che non mi sembri puzzare di cipollotto e salvia. Se dunque come Giosuè perdi la memoria in un paese dove sei una sconosciuta, approfitta per cambiarti nome. Più di una volta hai inventato di chiamarti in altri modi, per esempio Clara, Dalia, Teresa. Una volta Marianna. Marianna sì che è un nome da ciclista. Mi chiedo a volte se tutto poteva essere diverso, chiamandomi Marianna Morini. Una Marianna Morini poteva vincerlo, il Giro d’Italia, un’Alfonsina partecipa e basta. Comunque, al di là di tutto, sappi che resterai nell’anima un’Alfonsina, a vita condannata a una scossa alla schiena quando qualcuno ti chiama per nome.

***

Tutti gli ebook di Il dondolo si possono scaricare gratuitamente sulla piattaforma MLOL, che mette insieme le risorse di cinquemila biblioteche digitali italiane. Un quaderno rosa potete scaricarlo e continuare a leggerlo qui, in formato EPUB o mobi.