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(Central Press/Getty Images)

Il cinema secondo Orson Welles

È stato ripubblicato uno dei migliori libri sul cinema: le tante interviste di Peter Bogdanovich a uno dei più grandi registi di sempre

Orson Welles per tutti quelli “dentro” il cinema è il più grande di tutti. Per molti è soprattutto quello di Quarto Potere, il film da decenni in cima a tutte le liste dei migliori film di sempre, che ha prodotto, scritto, diretto e interpretato. Altri se lo ricordano anche come quello che nello sceneggiato radiofonico La guerra dei mondi fece credere che fossero arrivati i marziani. Lo scherzo più riuscito della storia lo fece a 23 anni; il film che è considerato tra i più belli e importanti della storia del cinema lo fece a 25 anni. Poi girò tantissimi altri film tra cui Lo straniero, F come falso, Il processo e L’infernale Quinlan, che inizia con un grande e difficilissimo piano sequenza. Nel 1968 Welles chiamò Peter Bogdanovich – un giovane e poco noto regista (che ora ha 77 anni ed è molto più noto) – e si propose per un libro-intervista. Quel libro divenne Io, Orson Welles, uno dei due migliori dialoghi tra registi mai scritti; l’altro è Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut. Il libro di Bogdanovich su Welles era diventato piuttosto difficile da trovare, almeno nuovo e in italiano: ora Il Saggiatore l’ha ripubblicato, con traduzione di Roberto Buffagni e una nuova introduzione di Bogdanovich. Il nuovo titolo è Il cinema secondo Orson WellesAbbiamo raccolto frasi, pezzi, aneddoti del libro.

L’introduzione di Bogdanovich (pag. 9)

Ho visto all’opera, fra gli altri, John Ford, Alfred Hitchcock e Howard Hawks, ma Welles li faceva apparire convenzionali di fronte all’atmosfera collaborativa, eppure libera e leggera, a cui dava vita grazie all’incrollabile energia, l’inventiva, la velocità, il senso dell’umorismo che lo contraddistinguevano. Era un tale divertimento recitare per Welles che non avevano più importanza la scena o quello che ti chiedeva di fare. Avresti fatto qualunque cosa per lui, e avresti potuto: lui sapeva renderti migliore di ciò che eri.

Peter Bogdanovich (Frazer Harrison/Getty Images)

«Se è un’affermazione, è sbagliata; se è una domanda, la risposta è no» (pag. 50)

PETER BOGDANOVICH: Il tuo primo amore è stato il teatro.

Peter, se è un’affermazione, è sbagliata; se è una domanda, la risposta è no.

– Ma hai cominciato con il teatro.

Perché ero rimasto senza soldi e non volevo tornare in America e andare all’università. Ho guadagnato i miei primi soldi col teatro, ma ho cominciato con la musica; ero una specie di pseudo bambino prodigio. C’entrava con mia madre, che era una pianista molto dotata. Non ho più suonato una nota da quando è morta. Avevo nove anni quando è successo, e avevo già cominciato a dipingere. È quello il mio più grande amore. Lo è sempre stato. Se solo fossi stato più bravo, sarei un pittore ancora adesso. […]

Charlie Chaplin e Marlon Brando (pag. 84)

– Seriamente. Cosa pensi di te, come attore?
Non sono sicuro, Peter. Quando penso a me stesso, non mi penso come un attore. Oh, non che me ne vergogni, come Brando…

– Davvero si vergogna?
Dice di sì, e secondo me lo pensa. Per quanto riguarda me… be’, m’è capitato molto di rado di sentirmi serenamente orgoglioso, in quel mestiere. Ma probabilmente capita a tutti, tranne che agli autentici idioti. Uno direbbe che solo per potersi presentare al pubblico, sia necessario avere un bel po’ di presunzione. Eppure, gli attori più interessanti che ho conosciuto, tutti quanti, sono rosi dall’insicurezza di sé. […]

– Vediamo se ci arrivo così…
Vediamo di parlare di Chaplin.

– Va bene, sei un attore grande come lui?
Non siamo nello stesso campionato, Peter. Neanche nello stesso sport.

Il giovane Welles (pag. 87)

– Che film ti piacevano da ragazzino?
Il primo che ricordo è Nascita di una nazione; una seconda visione probabilmente, ma con una grande orchestra in buca. Mi lasciò spaventato e depresso. Andavo matto per Robin Hood e per I tre moschettieri. Fairbanks era il mio idolo; Fairbanks senior, naturalmente. Anche per Larry Olivier. Me l’ha detto lui. Eravamo drogati di Fairbanks. Per i film di cappa e spada non c’era nessuno come lui; nessuno che si muovesse in modo così meraviglioso, con una sfrontatezza così affascinante, così ingenua… Nostra Signora di Parigi, quello fu un avvenimento. Lon Chaney. L’ho rivisto l’anno scorso in TV e penso ancora adesso che era un grande.

L’aneddoto di Bogdanovich (pag. 135)

– Ok, cambio argomento.
No parla tu per un po’.

– Va bene, C’è un bell’aneddoto su John Ford.
Racconta.

– Il produttore arriva sul set, Ford immediatamente smette di girare. Si mette a sedere e comincia a chiacchierare col produttore. Il produttore si accorge che hanno smesso di lavorare tutti quanti, e dopo un po’ dice: «Non credi che dovresti, come dire, tornare al lavoro, Jack [il nome che usò per alcuni anni]? Voglio dire…». E Ford fa: «Oh, no! Dio, sarebbe scortese. Voglio dire, se io venissi nel tuo ufficio tu smetteresti di fare telefonate, no? Non continueresti a fare telefonate o a parlare con qualcuno mentre io sono nel tuo ufficio. Ti metteresti seduto a parlare con me, no? Be’, io faccio lo stesso…».
Grandioso.

I titoli di testa di Quarto Potere, che non ci sono (pag. 138)

– Perché hai deciso di non mettere i titoli di testa? Non l’aveva mai fatto nessuno.
È il copione che costringe a far così. Guarda quante cose ci sono all’inizio, prima che cominci la storia: lo strano prologo con la sua atmosfera di sogno, poi il cinegiornale News on the March, e poi la scena della sala di proiezione; passa molto tempo prima dell’inizio vero e proprio. Ora, immagina di aggiungere anche i titoli di testa. Era un’altra attesa. Non avrebbero capito a che punto era il film.

Stanleykramerlandia (pag. 139)

– Fritz Lang ha detto di aver smesso di usare il simbolismo perché alla MGM qualcuno gli ha detto: «Agli americani non piacciono i simboli».
Sono uno di quegli americani. Non li uso mai. Se qualcuno li trova, è perché li vuole trovare. Non mi metto mai a tavolino a pensare che simbolo usare per un personaggio. Vengono automaticamente, perché la vita è piena di simboli. Così l’arte. Non si possono evitare; ma se li usi, finisci a Stanleykramerlandia.

Fellini fuori dal cancello (pag. 197)

– E “La dolce vita”?
Essenzialmente Fellini è un ragazzo di provincia che non è mai realmente arrivato a Roma. Ne sta ancora sognando. E dovremmo essere tutti riconoscenti per quei sogni. In un certo senso, sta ancora ritto fuori dal cancello, a guardare attraverso le sbarre. La forza della Dolce vita viene dalla sua innocenza provinciale. È così totalmente inventato!

– Forse l’aspetto «provinciale» mi fa preferire “I vitelloni” a tutti gli altri suoi film.
Dopo Lo sceicco bianco è il migliore di tutti.

– Ti sarebbe piaciuto di più “Otto e mezzo” se Fellini l’avesse anche interpretato? In un certo senso, non riuscivo a vedere Marcello Mastroianni nella parte di un regista cinematografico.
Ah ma lui per Fellini era solo l’idea dell’aspetto che avrebbe voluto avere… In quel film, le cose buone sono straordinarie.

Su Rita Hayworth in La signora di Shanghai, diretto da Welles nel 1947 (pag. 249)

– Perché hai fatto cantare Rita, nel film?
Impossibile il contrario.

– E hai registrato la canzone con molta cura e tenerezza.
Impossibile il contrario.

«È senso del ritmo, tutto lì» (pag. 312)

– Ti diverti a montare?
È come scrivere, un lavoro solitario. Bisogna essere capaci di sgobbare, sgobbare e sgobbare, dieci ore al giorno, tutti i giorni, un mese dopo l’altro.

– Lavori d’istinto quando monti, vero? La scelta del fotogramma esatto?
È senso del ritmo, tutto lì. La vera forma di un film è musicale.

– E non si può insegnare.
Si può insegnare fino a un certo punto. Se mai cercassi di insegnare a fare cinema, terrei la maggior parte dei miei corsi intorno a una moviola.

Il piano sequenza di L’Infernale Quinlan (pag. 372)

– I quattro minuti di ripresa in gru in apertura stanno tra le grandi riprese della storia del cinema.
Mi è sempre dispiaciuto che ci abbiano messo sopra i titoli [in successive versioni sono stati tolti], perché era pensato per lo schermo libero, con i titoli in fondo al film. È un peccato dover vedere delle scritte su qualcosa di tanto importante – tutta la storia era in quella ripresa di apertura.

Ma (pag. 372-373)

[Welles:] Ma nell’Infernale Quinlan c’è una c’è una ripresa in gru tecnicamente più difficile, anche se nessuno la riconosce per quel che è; dura quasi un rullo, nell’appartamento del ragazzo messicano – si svolge in tre stanze – quando trovano la dinamite in bagno. Abbiamo usato pareti mobili…

– Senza stacchi?
Senza stacchi.

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