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  • Mercoledì 28 settembre 2016

Uno come Miles Davis

Non c'era prima e non c'è stato dopo: storia e musica del più grande jazzista di sempre, morto oggi 25 anni fa

di Stefano Vizio – @stefanovizio

Miles Davis in un concerto a Osaka, in Giappone, l'11 ottobre 1981. (Ansa)
Miles Davis in un concerto a Osaka, in Giappone, l'11 ottobre 1981. (Ansa)

Nel 1987 Miles Davis aveva 61 anni. Quell’anno andò con sua moglie Cicely Tyson a una cena alla Casa Bianca: il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan doveva dare un premio alla carriera a Ray Charles. Davis finì a un tavolo con la moglie bianca di un politico. Per tutta la sua vita, aveva criticato le discriminazioni contro i neri negli Stati Uniti, e negli anni Ottanta era diventato uno dei temi di cui parlava più spesso: fece un intero disco per protestare contro le violenze della polizia sugli afroamericani, ed era diventato ancora più insofferente riguardo all’appropriazione culturale che, secondo lui, si era verificata in America con il jazz e il blues, generi musicali che erano nati originariamente tra i neri. Quella sera, ha raccontato Davis nella sua autobiografia scritta con Quincy Troupe, la moglie del politico gli fece una domanda sul jazz che lui reputò scema, e le rispose male. Lei rimase un po’ scossa e gli chiese: «Be’, che cosa ha fatto lei di tanto importante nella sua vita per essere qua?». «Ho cambiato la musica cinque o sei volte, lei cosa ha fatto di così importante, oltre ad essere bianca?», le rispose Davis. Ci fu un silenzio imbarazzato, e Reagan, che aveva sentito lo scambio, non sapeva bene come uscirne: ma era il tipo di situazione che capitava spesso, quando si aveva a che fare con Davis.

Davis morì quattro anni dopo quella cena: il 28 settembre 1991, esattamente 25 anni fa. Aveva 65 anni, in cui si era guadagnato una lunga serie di riconoscimenti, che andavano da miglior trombettista di sempre, a più grande jazzista della storia, a musicista più importante della seconda metà del Novecento. Fu un po’ di tutte queste cose, ed è difficile considerarlo qualcosa di diverso da uno dei musicisti più influenti del secolo scorso. Secondo qualcuno Davis fu soprattutto intelligente a capire, in diverse occasioni, dove stava andando il jazz, diventando sempre il primo musicista importante e affermato a sperimentare le nuove tendenze musicali, dal cool jazz alla fusion. Tendenze però che erano state inventate da altri. In parte è così: Davis aveva un metodo infallibile, cioè mettere insieme sempre band con i migliori giovani musicisti in circolazione, e lasciarli liberi di sperimentare cose nuove. I dischi di Davis non erano mai i primi a fondare nuovi generi: erano però, quasi sempre, i più belli (e quelli che vendevano di più).

Davis ancora oggi mette in crisi molti critici musicali: la sua enorme importanza per la musica contemporanea è innegabile, ma oltre a ispirarsi spesso ad altri musicisti, secondo qualcuno non era neanche un grandissimo trombettista. A differenza della maggior parte dei più grandi jazzisti della seconda metà del Novecento, non fece del virtuosismo musicale la sua qualità principale. In un saggio pubblicato nel 1993, il musicologo Robert Walser scrisse che Davis «sbagliò più note di qualunque altro grande trombettista». Non era un grande improvvisatore come il sassofonista Charlie Parker, né un virtuoso come John Coltrane, e in molti credono ci siano stati anche compositori molto migliori, come per esempio Duke Ellington.

Le perplessità di parte della critica dipesero anche dalla sua grande passione per dare legittimità a generi e stili musicali che fino a lui erano disprezzati da chiunque contasse qualcosa nel jazz, cambiando quella che era l’estetica percepita di uno dei generi musicali più conservatori e codificati di tutti. In realtà sapeva suonare benissimo, ma è effettivamente vero che spesso le sue esibizioni, anche nelle registrazioni in studio, erano piene di cose che normalmente verrebbero considerate sbagliate, dal punto di vista tecnico. Spesso durante i concerti forzava la tromba usando tecniche rischiose che a volte gli sfuggivano di mano, producendo suoni sporchi e dissonanti. Lui invece di cercare di farli dimenticare al pubblico li ripeteva. I suoi assoli non erano dimostrazioni di tecnica, ma assomigliavano di più a dei discorsi, a volte incespicanti, a volte travolgenti e confusionari. Come ha spiegato il pianista Chick Corea, gli assoli di Davis non sono particolarmente interessanti a guardarli su uno spartito musicale: «senza l’espressività, senza i sentimenti che ci mette, non c’è niente».

Qualcuno ha detto che era grande soprattutto per le note che non suonava, più che per quelle che suonava, per via delle lunghe e imprevedibili pause che faceva spesso nelle sue improvvisazioni. E proprio perché raramente i suoi assoli erano fitti e articolati, faceva sembrare ogni nota che suonava la più importante che il pubblico avesse mai sentito. Lui diceva: «A volte finisci le note. Le note semplicemente spariscono, e devi suonare un suono».

Per almeno tre volte nella sua carriera, un disco di Davis ha coinciso con un cambiamento radicale in quello che sarebbe stato il jazz nel decennio successivo: nel 1950 con le registrazioni che sarebbero poi state raccolte in Birth of the Cool, nel 1959 con Kind of Blue e nel 1970 con Bitches Brew. Quindi forse non davvero cinque o sei, le volte in cui cambiò la musica, come disse quella sera alla Casa Bianca: ma di sicuro furono più di chiunque altro.

(Miles Davis esagera su quante volte ha cambiato la musica,
i
n una famosa serie fotografica di Irving Penn)

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