Milton Glaser, quello che ha inventato “I ♥ NY”

La storia del grande grafico newyorchese, che ideò su un taxi uno dei loghi più famosi di sempre

(Christina Horsten/picture-alliance/dpa/AP Images)
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“I ♥ NY” è forse il logo più famoso del mondo associato a una città: a New York lo si può vedere praticamente dappertutto, è stato copiato da moltissime altre città e celebrato per la sua essenzialità, efficacia e universalità. Ed è anche esposto al MoMA, uno dei più importanti musei di arte moderna al mondo. Fu inventato su un taxi nel 1977 da Milton Glaser, uno dei grafici più famosi di sempre, per promuovere il turismo a New York, che negli anni Settanta stava attraversando un periodo difficile, caratterizzato da una diffusa criminalità. Oggi i diritti del logo appartengono all’Empire State Development Corporation, un’organizzazione governativa che promuove lo sviluppo economico nello stato di New York, e genera oltre 1 milione di dollari di profitti annui. Glaser lo disegnò praticamente gratis, ricevendo un compenso di appena 2000 dollari: meno di quanto spese per produrre i modelli dimostrativi.

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In una recente intervista al New York Times, Glaser ha detto che vorrebbe che la gente dimenticasse il logo “I ♥ NY”, perché intanto ha fatto molte altre cose. Già prima del 1977, infatti, Glaser era molto famoso: nel 1967 aveva realizzato quello che sarebbe diventato il suo secondo lavoro più famoso, per la copertina originale del disco Greatest Hits di Bob Dylan, che consisteva in una silhouette del cantante con i capelli colorati. La copertina era in parte una citazione di un famoso autoritratto di Marcel Duchamp, influenzata dai temi psichedelici molto diffusi negli anni Sessanta. Nel 1968, poi, aveva fondato insieme al giornalista Clay Felker il New York Magazine, una delle più famose e apprezzate riviste americane, che diventò un modello in tutto il mondo per come trattava i temi legati alla città, e per le sue attenzioni alle esigenze e ai gusti dei lettori.

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Glaser nacque a New York nel 1929, da genitori ungheresi ed ebrei. Crebbe in un condominio chiamato United Workers Cooperative Colony, e conosciuto come Coops: una specie di roccaforte comunista, dove gli anziani insegnavano la politica ai giovani in Yiddish. L’idea e la percezione che Glaser si costruì di New York negli anni successivi ebbe molto a che fare con quell’ambiente: «senza essere troppo esibizionisti, il carattere di New York è così intrinsecamente ebraico. Quell’attitudine verso la vita, verso il cibo, verso la musica, verso la ricerca intellettuale». Alla United Workers Cooperative Colony Glaser capì di essere appassionato di disegno, e di poterci guadagnare: i suoi ritratti di donne nude erano molto richiesti dagli altri ragazzi. Si iscrisse alla High School of Music & Art e si laureò all’università Cooper Union, per poi fondare i Push Pin Studios con i suoi compagni di corso Seymour Chwast e Edward Sorel. Lo stile di Glaser si discostava dal realismo che caratterizzava le illustrazioni e la grafica degli anni Cinquanta, e intorno alla fine degli anni Sessanta, soprattutto dopo il ritratto di Dylan, divenne molto famoso e richiesto.

Nel 1957 Glaser aveva sposato Shirley Girton, una fotografa sua compagna di corso alla Cooper Union. Avevano trovato casa vicino a St. Marks Place, nell’East Village di Manhattan, una zona abbastanza economica dove vivevano molti artisti con pochi soldi. Verso la fine degli anni Sessanta però si spostarono sulla West 67th Street, nell’Upper West Side, perché il Village non era più sicuro: in quegli anni la criminalità per le strade di New York stava aumentando molto, e le rapine e gli omicidi erano molto frequenti. Anche nella nuova zona, però, le cose non erano molto tranquille: «Dico questa cosa, e la gente non ci può credere. Eravamo seduti a cena sulla 67esima strada e io proponevo di uscire a fare una passeggiata, e Shirley diceva: “Ho paura. Ci sono state troppe rapine nel quartiere”. Le persone avevano letteralmente paura di camminare per le strade».

Ciononostante, Glaser continuava ad amare New York: «Non mi sono mai separato dalla città. Penso di essere la città. Sono quello che è la città. Questa è la mia città, la mia vita, la mia visione». Fu in questo contesto di declino che l’ufficio del turismo dello stato di New York lanciò una vasta campagna pubblicitaria per rivalutare la città, spendendo 4 milioni di dollari. Prima lo slogan “I love New York” venne trasformato in un jingle da un compositore del Bronx di nome Steve Karmen, poi fu chiesto a Glaser di tirarne fuori un logo. A Glaser lo slogan piaceva perché non era un tentativo di vendere qualcosa, ma una specie di giuramento, o di dichiarazione di intenti. Glaser provò a fare stare la scritta per esteso dentro due losanghe, e lo propose così. Un giorno, mentre stava andando in taxi al suo studio, ebbe però un’altra idea, e fece uno schizzò con un pennarello rosso, riducendo il logo a soli quattro caratteri. «È un po’ complicato. “I” è una parola. “♥” è il simbolo di un’emozione. “NY” sono le iniziali di un posto. Quindi ci sono tre trasformazioni. Devi usare un po’ il cervello per tradurlo, anche se una volta che lo fai, è ovvio, e non c’è nessuno che non riesca a capirlo. Ma l’attività del cervello è in parte responsabile per la sua resistenza nel tempo».

Al New York Times, Glase ha spiegato: «Sapevo che quello che stavamo comunicando era qualcosa che teneva insieme le persone, che stabiliva per loro un modo di comunicare, che in molti contesti non è così facile trovare». Dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, Glaser ridisegnò il logo, aggiungendo una bruciatura al cuore e le parole “More Than Ever” (più che mai) dopo NY.

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Quest’anno, Glaser ha disegnato un logo per lo stato del Rhode Island, che diceva “Warmer and Cooler” (più caldo e più fresco): ha ricevuto però moltissime critiche negative – soprattutto su internet, ha raccontato un po’ turbato Glaser – e alla fine il capo dell’ufficio marketing dello stato si è dovuto dimettere. Oggi, dice, a New York c’è una nuova crisi, legata alle disuguaglianze sociali: «C’è un’opinione molto sbagliata sull’equità tra le persone normali e quelle che guadagnano moltissimi soldi. L’idea di un appartamento da 50 milioni: cosa? Ma come si fa?». Se dovesse disegnare un nuovo logo per la città, ha detto al New York Times, ne farebbe uno per una maggiore equità in città, «qualunque cosa voglia dire».